Cultura

Se la bora soffia sul malumore

Se la bora soffia sul malumoreCartolina con la bora dei primi del Novecento

Il fascino del museo Un tour in Friuli tra i magazzini dove si conservano i venti e le raffiche (Trieste), le navi di Monfalcone e i paesaggi sonori della comunità slovena

Pubblicato circa 7 anni faEdizione del 12 agosto 2017

Se Napoli ha il Vesuvio, Roma il Colosseo, Genova la Lanterna, Trieste ha la Bora. Città elegante e davvero diversa, Trieste si distingue per un vento suo proprio, sferzante e teso, la bora, appunto. Della bora Trieste possiede le chiavi, essendone la cosiddetta Porta: la bora è un vento catabatico, cioè che scivola basso nell’atmosfera tra altri venti di più alta quota -come un aereo con un proprio slot – e soffia a raffiche (refoli) in direzione Est-NordEst dal Carso triestino fino a Venezia e Chioggia, dove si smorza. La bora estiva è più delicata e diventa borino. Carlo Wostry (1865-1943), interessante pittore triestino ma anche uomo di mondo, diceva: «La bora è l’unica cosa veramente originale che abbiamo». E in dialetto tergesteo, imborezà, indica un soggetto simpaticamente agitato, un matto allegro, un pazzariello. La bora può essere chiara o scura: di conseguenza il cielo sarà sereno oppure carico di pioggia.

Alla bora Trieste, nel centro storico ha dedicato una piccola strada: via della Bora, ovviamente. Ma se volete assaporare questo vento speciale, che forgia la città ma anche le menti e il carattere dei suoi abitanti, recatevi in via Belpoggio 9, dove hanno sede il Museo della Bora e il relativo Magazzino dei venti: 55 mq di fantasia e scienza, in eguale misura.

AD ANIMARE, sin dal 2004, il Museo dell’invisibile e dell’inafferrabile è Rino Lombardi, autore, inventore e direttore del più singolare tra i quattromila musei italiani. Prendete appuntamento: Rino vi accoglierà, acrobata della parola e fine pedagogo eolico, con un sorriso. Poi vi introdurrà ai misteri – spiegati da venti indizi esposti in apparente disordine – della bora e dei suoi fratelli, i venti: ossia gli spiriti vitali dell’aria.

Al Museo della bora imparerete a misurare il vostro vento interiore secondo la scala dell’ammiraglio Beaufort, a costruire una girandola come la insegnava Bruno Munari, a ridere del refolo inatteso con cui uno spara-aria vi scompiglierà i capelli. Apprenderete che nel 1954 la bora soffiò all’impressionante forza di 171 km orari, quando si spaccò l’anemometro: allora nel centro di Trieste si tendevano delle corde cui si aggrappavano i triestini; i bambini li si zavorrava con ferri da stiro in cartella e i tacchi delle scarpe si ferravano con rampini da ghiaccio detti iazini; sassi in tasca nelle giacche maschili contrappuntavano i piombini negli orli delle gonne delle signore.
Vedrete una collezione di cartoline d’epoca e apprezzerete una ricca biblioteca eolica, che parla del vento e ne richiama la letteratura: dalle deleddiane Canne al Vento ai mulini donchisciotteschi, un compendio dell’energia eolica che ha sospinto la penna degli scrittori nei secoli.

IL MUSEO HA ANCHE una galleria d’arte: dalle rare grafiche di Miela Reìna, talento impetuoso presto spezzato, al contemporaneo Matteo Nasini (ora alla Biennale di Venezia), il Museo della bora raccoglie e colleziona indizi d’arte e vento. E li accosta all’archivio scientifico di Silvio Polli, il massimo studioso del vento carsico. Ma certo vi emozionerete davanti ai circa duecento venti da tutto il mondo, racchiusi in scatole o bottiglie e accompagnati da lettere tenere o asciutte: è il Magazzino dei venti, un archivio unico, formidabile, di poesia gestuale dadaista e di paesaggi dell’anima. Narra Lombardi che un catanese si sia commosso per il vento dell’Etna, ma anche i tre esemplari di Maestrale non scherzano quanto a forza evocativa.

DOPO LE FOTO DI RITO, scattate mentre la bora vi ruba il cappello, lascerete leggeri la vostra firma sul Registro, leggendo le parole che Stendhal dedicò all’abominevole bora, riportate su una finestra bianca poggiata a terra, vicino all’uscio. Appena fuori, prossimi alle Rive di Trieste, diretti al Molo Audace, sognerete di tornare presto nel piccolo, immenso Museo della Bora, e di ripetere l’esperienza. Conforta sulle sorti del disgraziato Belpaese scoprire che Rino Lombardi coordina per il Friuli l’Associazione dei piccoli Musei.
Dal lungomare proseguite per la Costiera, superando il Castello di Miramare e poi incontrando Duino, e via fino a Monfalcone. Qui a metà giugno ha aperto i battenti il Muca, Museo della Cantieristica navale. Alloggiato nell’ex Albergo Operai del Villaggio di Panzano – vera e propria company town voluta dagli armatori Cosulich, fondatori nel 1908 del cantiere navale, e progettata dall’ing. Dante Fornasir – il Muca è un caso unico in Italia di museo di archeologia industriale attiva.

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RACCONTA in quattordici sale la storia tanto del cantiere navale, quanto della trasformazione sociale e urbanistica, nonché paesaggistica, che un secolo e più di industria navale ha arrecato all’area. Dal 1900 al 1913 Monfalcone ancora asburgica passa da 4500 a 11mila abitanti: su una simile spinta demografica i Cosulich, imprenditori illuminati e moderni, immaginano un progetto complessivo di vita per i propri dipendenti e per la città di Monfalcone in esplosivo sviluppo.

DOPO LA PRIMA GUERRA mondiale, Monfalcone ormai italiana, il progetto di una città giardino per le maestranze del Cnt Cantiere Navale Triestino prende corpo. Nel 1927 si inaugura il quartiere di Panzano: casette per le famiglie operaie; un albergo per operai celibi con settecento stanze e servizi decorosi; un albergo per gli impiegati celibi, perfettamente conservato e oggi hotel, e infine le villette per i dirigenti, pirotecnico sfoggio di eclettismo architettonico di Dante Fornasir. E ancora un teatro, una palestra, un campo sportivo: casa e lavoro per tutti, con un’idea di socialismo benevolente e un controllo sociale volto alla produzione. Il Museo, dunque, procede su un doppio binario narrativo, di grande efficacia: la storia di un’azienda tuttora ai vertici mondiali per la cantieristica navale e quella, forse più interessante, di un territorio che a lungo si è identificato con l’azienda, nazionalizzata dagli anni Trenta.

LA VISITA AL MUCA, perciò, unisce il racconto industriale nelle sale alla visita in esterno al quartiere, urbanisticamente strepitoso. Meritano una menzione a parte, il ricamo di Zoran Music dedicato a Marco Polo, lavoro del 1951 proveniente dal salone dalla motonave Augustus, ora in deposito dalla Gnam di Roma, nonché i dipinti che decoravano il teatro, bombardato nel 1944. Opera di Vito Timmel, pittore Jugendstil dalla vita disperata, le tele di soggetto teatrale, credute perdute per decenni, sono stata ritrovate nel 2000. Restaurate ed esposte a rotazione, ci riportano un artista incredibile per vigore plastico e allucinata sapienza cromatica.

INFINE, RAGGIUNGETE San Pietro al Natisone, vicino Cividale. Qui la comunità slovena nel 2013 ha promosso l’apertura di un museo: è lo Smo, museo di paesaggi e narrazioni. Ideato e progettato dall’ architetto Donatella Ruttar, lo Smo fa capo all’Istituto per la Cultura Slovena. È un museo multimediale, connotato da una narrazione interattiva, immersiva e sonora, che trova nella madrelingua slovena – negata a lungo alla popolazione di confine che va da Tarvisio a Trieste – il proprio baricentro. È un museo che invita all’ascolto e al dialogo, nel riposo di suggestioni visive e sonore ben calibrate: sette paesaggi ricchi di spunti e varianti, dalle Alpi Giulie all’Istria, guidano il visitatore all’immersione nel mondo culturale sloveno.

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Un’installazione è particolarmente coinvolgente, i Paesaggi culturali. È un trittico video, con tre schermi che rimandano in armonia immagini di luoghi e spazi (ad es. gli interni delle chiese tardo-gotiche alpine slovene) secondo tempi e sguardi di ripresa differenti nel ritmo e nell’andamento. L’effetto è quello di essere dentro una chiesa, con visione laterale, percettivamente sensibile ed emozionante. Sembra di sentire cantare, con quelle sillabe schiacciate, palatali, tipiche delle lingue slave. È la voce del vento della Valle del Natisone. Inscatolatene un pochino e mandatelo al Museo della Bora, a Trieste, dove sarà custodito con cura.

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