Dal punto di vista economico, gli anni compresi tra il crack finanziario del 2007-2008 e l’avvento della pandemia sono stati contrassegnati anche dalle cosiddette «politiche non convenzionali» delle banche centrali. Non solo tassi d’interesse, ma anche acquisto di titoli pubblici e privati sul mercato secondario. Più denaro in circolazione, rendimenti delle obbligazioni statali sotto controllo.

In Europa, l’anno cruciale è il 2015, quando la Bce guidata da Mario Draghi lancia il cosiddetto quantitative easing. Non una forma di finanziamento diretto degli Stati, vietato dai Trattati, ma comunque un modo per «alleggerire» gli oneri di rifinanziamento sul mercato. Un grande ombrello protettivo. Finché non è arrivata l’inflazione.

Gli acquisti netti sono cessati (sia il quantitative easing che il piano pandemico Pepp), salvo reinvestimento dei titoli in scadenza, e l’assistenza ai Paesi in difficoltà è stata rimessa ad uno strumento on demand, per di più condizionato all’osservanza dei vincoli europei (lo scudo anti-spread Tpi).

Ma adesso la Bce sta discutendo anche dell’ipotesi di ridimensionare il suo ipotrofico bilancio, su cui pesano 5100 miliardi di euro di titoli (il 40% del Pil della zona euro). Dal quantitative easing (più liquidità nel sistema) si dovrebbe passare al quantitative tightening (ritiro della liquidità immessa nel sistema). Manco a dirlo, l’idea è del governatore della banca centrale olandese Klaas Knot.

L’operazione. Si è detto che la Bce ha deciso di chiudere i programmi d’acquisto lanciati dopo la crisi del decennio scorso e a seguito della pandemia, riservandosi tuttavia di reinvestire i proventi derivanti dai titoli a scadenza. Lo Stato rimborsa la Bce, che, a sua volta, ricompra i titoli dello Stato. Se non fosse che l’ammontare di questi titoli viene conteggiato al numeratore nel rapporto debito/pil (147% in Italia), si potrebbe parlare addirittura di un «non-debito». Con il quantitative tightening, però, le cose cambierebbero. La Bce, ad ogni scadenza, reinvestirebbe solo una parte del capitale, accantonando la parte rimanente. In questo modo, il suo portafoglio titoli si alleggerirebbe, di pari passo con la riduzione del denaro in circolazione.

La decisione non è stata ancora assunta, ma i mercati hanno iniziato già a reagire. Con danno per i Paesi più indebitati, come l’Italia. Lo spread tra Btp e Bund tedeschi, che adesso viaggia sui 245 punti base, è anche figlio del timore di una nuova virata restrittiva di Francoforte. Tra incertezze sul quadro politico e un debito che a settembre ha superato i 2700 miliardi di euro, senza la copertura completa dei titoli a scadenza detenuti dalla Bce, il nostro Paese rischia insomma un deterioramento della sua «credibilità» sui mercati.

Il «ricatto del debito». Eppure, un’alternativa ci sarebbe. Cancellando il debito in mano alla Bce. Il modo migliore per chiudere un ciclo ed aprirne un altro all’insegna del sostegno alla crescita e dell’equità sociale. Obiezione dell’amico al bar: sarebbe come se una famiglia decidesse a piacimento come e quando liberarsi dai debiti contratti per comprare la casa o l’automobile! Ma lo Stato e le banche centrali non sono come una famiglia. La Bce liquida le banche che hanno acquistato i titoli in asta o sul mercato obbligazionario con denaro creato ex nihilo. In questo modo, lo Stato non paga più gli interessi alla banca commerciale ma alla «sua» banca centrale, che poi li gira di nuovo allo Stato. Una partita di giro.

Se la banca centrale trasformasse questi titoli in «titoli perpetui» non rischierebbe certo di fallire. E aiuterebbe l’economia. Come hanno fatto osservare gli estensori di un recente appello per la cancellazione del debito (tra questi, Laurence Scialom, Gaël Giraud e Thomas Piketty), sottoscritto in Italia da 21 economisti, «la Bce potrebbe offrire agli Stati europei i mezzi per la loro ricostruzione in chiave ecologicamente sostenibile, ma anche riparare la frattura sociale, economica e culturale dopo la terribile crisi sanitari ».

Un patto, quindi, tra governi e Bce: «Quest’ultima si impegnerà a cancellare il debito pubblico che detiene (o a trasformarlo in debito perpetuo senza interessi), mentre gli Stati si impegneranno a investire lo stesso importo nella ricostruzione ecologica e sociale». Potremmo aggiungere, anche per mitigare l’impatto dello shock energetico sulle classi popolari e le imprese. Il tempo di scelte coraggiose è adesso.