Può capitare di sorprendersi, anche per chi a teatro vada abitualmente, davanti a un appuntamento che in un ambiente teatrale decentrato e abbastanza isolato tra i monti abruzzesi, metta a confronto con un pubblico folto (pur se in gran parte aficionados) un gruppo di attori non professionali (almeno non in senso stretto), che vanno a misurarsi, scavando e azzardando, con un testo che da quasi un secolo pone domande e problemi proprio sul «fare» teatro, sul suo senso e sulla sua stessa possibilità. Il titolo del lavoro presentato, I giganti e noi, viene da quella che è l’ultima, incompiuta, opera di Luigi Pirandello, I giganti della montagna, pubblicata nel 1937, l’anno dopo la sua morte e la vittoria del Nobel.
Nello spazio Nobelperlapace (così chiamato perché da quei «premiati» ne fu finanziata la nascita), tra i monti di San Demetrio e gli sbalzi innevati a pochi chilometri dal capoluogo, si tiene fino a metà marzo una piccola ma vera stagione teatrale. Con diversi spettacoli ospiti e questo inaugurale realizzato dal gruppo che ne è interprete, oltre che in qualche modo «autore» (nome collettivo «il teatro che fa bene»). In realtà colui che ne è ispiratore, e del gruppo tiene le fila, è una persona che col teatro, anche quello ufficiale, ha una lunga consuetudine: Giancarlo Gentilucci ha lavorato (come responsabile della tecnica, e in seguito anche delle scenografie) per molti anni allo stabile dell’Aquila, reso illustre dai diversi direttori che vi si sono succeduti negli scorsi decenni, da Giorgio Guazzotti a Beppe Navello, da Antonio Calenda a Gigi Proietti.Giancarlo Gentilucci guida in scena un gruppo di attori non professionisti

È STATO LUI a proporre a quel gruppo di amatori del teatro di misurarsi con quel testo, che è diventato percorso e indagine per tutti i partecipanti. Così da prendere la decisione di portare in scena, davanti a un pubblico familiare e partecipativo, i risultati di quella ricerca. Stefania Marrone ha curato la stesura del testo, aderendo e «interpretando» quelle creature, così da svelarne anche aspirazioni e contraddizioni. Mescolando e riproponendo sia gli Scalognati desiderosi di recitare asserragliati dentro la villa sotto la montagna, che i sopraggiunti attori della «compagnia della Contessa» Ilse (quelli che nell’originale vorrebbero mettere in scena La favola del figlio cambiato, un testo di Pirandello…). I primi spingono il gruppo degli altri ad andare a fare la loro rappresentazione davanti ai mitici Giganti che occupano le alture della Montagna.

IN QUESTO MODO molti dei personaggi immaginati da Pirandello si mescolano in quell’area incolta, il cui punto di partenza, verso l’arte o il destino, è dato da un treno: che su quel binario in proscenio più volte viene annunciato, non arriverà mai, in ritardo o in arrivo che sia. Pian piano quei personaggi offrono il destro per essere identificati nella scrittura pirandelliana originale, dal nano Quaqueo al mago Cotrone alla Sgricia, e dall’altra parte la Contessa Ilse e i suoi fantasiosi accoliti e figuranti, tutti vaghi eppure tutti o quasi identificabili. I diversi «gruppi» che si dibattono nella visione pirandelliana qui prendono corpo mentre via via si identificano, interagiscono, si confrontano animatamente con la propria quotidianità. Di un testo quasi impossibile (l’unico coraggioso allestimento passato alla storia fu quello di Giorgio Strehler, più volte ripreso), curiosamente questa edizione, per gioco e per passione, rivela altre possibilità, oltre al coraggio entusiasta degli interpreti. Quei lampi che vengono dal palcoscenico, quei rapporti contrastati, quelle illusioni irrealizzabili, quelle volontà e quei «deliri» affacciati sull’abisso, fanno balenare lucidamente forza e possibilità di un teatro che non sia solo esornativo o consolatorio, ma recepisca attese reali, anche se il treno della realtà (buona o cattiva che sia) probabilmente continuerà a tardare.