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Se il sistema economico ha bisogno della politica

Se il sistema economico ha bisogno della politicaLeonardo DiCaprio in «The Wolf of Wall Street» diretto nel 2013 da Martin Scorsese

Scaffale «Del capitalismo. Un pregio, tre difetti» di Pierluigi Ciocca. Per Donzelli, un’indagine dal respiro storico che si ispira alle analisi di Keynes

Pubblicato circa un'ora faEdizione del 20 novembre 2024

Il libro di Pier Luigi Ciocca Del capitalismo. Un pregio, tre difetti (Donzelli, pp. 174, euro 19) riconcilia con la scienza economica e ci mostra come tale scienza sia tutt’altro che triste. Il motivo è semplice quanto dirompente. Quella di Ciocca è infatti un’analisi interdisciplinare, dove la problematica posta (la possibilità del capitalismo di salvarsi da sé stesso, come amava dire Keynes) viene affrontata in una prospettiva storica. Quando l’economia politica vuole fare a meno della storia (come avviene nel pensiero dominante neoliberista), diventa inutile e funzionale al potere politico, quindi triste. Lo studio della storia è infatti centrale nella scienza economica, che ha come obiettivo principale non individuare leggi scientifiche in grado di essere valide in qualunque tempo e spazio, ma di studiare il sistema economico dominante oggi: il capitalismo come economia finanziaria di produzione. Ciocca parla di economia capitalistica e non di economia di mercato, come è oggi uso tra gli economisti e i politici. I due concetti non sono sinonimi.

L’ECONOMIA CAPITALISTICA, a partire dalla rivoluzione industriale e francese, è stata in grado di sviluppare una capacità di accumulazione (crescita economica) come mai si è registrata nella storia. «Secondo le stime pionieristiche di Angus Maddison dal 1820 al 2003 il prodotto pro-capite dell’umanità è aumentato di circa 10 volte, essendosi il valore aggiunto totale moltiplicato di quasi 60 volte per una popolazione esplosa da 1 a 6 miliardi di persone». Ciocca definisce tale grande capacità produttiva il pregio del capitalismo e la ragione del suo successo e diffusione. Un pregio accompagnato da tre difetti: iniquità, instabilità, inquinamento (le tre «i»). Riguardo l’iniquità, Ciocca individua tre fasi, a seconda del rapporto tra logica del Mercato (e quindi del profitto) e logica delle Istituzioni. «Dagli inizi dell’800 alla I guerra mondiale le Istituzioni sono ancora deboli e prevale il Mercato… La concentrazione (dei redditi, ndr) sale ancora. Tocca i massimi nell’intorno del 1915, quando l’1% detiene il 20%dei redditi e il 50% di patrimoni in Europa».

L’avvento del paradigma fordista e del keynesismo ribalta la situazione. «Dal 1950 agli anni ’70, alla eccezionale crescita economica e dell’occupazione si unisce l’azione redistributiva efficace delle Istituzioni. Nel 1980 in Occidente, l’1% più dovizioso detiene l’8% dei redditi e il 20/25% dei patrimoni». La terza fase è quella attuale, segnata dal trionfo del neo-liberismo di mercato e dallo smantellamento progressivo dei sistemi istituzionali di welfare. «Negli ultimi quarant’anni la sperequazione è risalita… Negli Stati Uniti la concentrazione ha raggiunto e superato i livelli del 1915: l’1% detiene il 20%dei redditi e il 35% dei patrimoni». Ciocca fa notare che tale diseguaglianza aumenta «nei» paesi e «tra» i paesi. La seconda «è drammaticamente aumentata di circa 10 volte dal 1820 al 1990 circa. È solo nell’ultimo trentennio che lo sviluppo rapido di paesi popolosi come la Cina e l’India… ha innescato un’inversione di tendenza, molto probabilmente destinata a perseguire».

Riguardo l’instabilità Ciocca distingue tre livelli: l’instabilità reale (recessione delle attività cicliche), l’instabilità finanziaria (dissesti bancari, borsistici e scadimento dei valori patrimoniali) e l’instabilità monetaria (inflazione e deflazione dei prezzi). Il sistema economico è caratterizzato da una strutturale instabilità reale che dà vita a un andamento ciclico.

CON L’ESPERIENZA da storico economico che lo contraddistingue, Ciocca enumera tutte le volte che le diverse economie capitalistiche hanno registrato riduzioni del Pil: «tra il 1820 e il 2015, in singoli anni il Pil è sceso 25 volte in Francia, 11 nel Regno Unito, 8 in Germania. Tra il 1860-84 e il 2015 è sceso in 16 occasioni in Giappone, 15 in India, 10 in Brasile, 9 in Italia, 8 in Canada, 7 negli Stati Uniti». Non è da meno l’instabilità finanziaria e monetaria. Quasi ogni paese ha visto più volte il tracollo dei valori azionari e periodi di forte inflazione, a partire dagli anni ’30, sino ai ’70 e alla grande crisi finanziaria globale del 2007-08.

Riguardo il terzo difetto, l’inquinamento, c’è poco da dire. Si tratta dell’aspetto negativo più catastrofico, dal momento che capitalismo e rovina ambientale sono due aspetti tra loro inscindibili, a meno che non si metta in moto una politica globale sovranazionale in grado di promuovere una politica di contenimento dell’emissione di gas serra e incentivare le energie alternative. Ma tale politica richiede decisioni comuni in tempi molto stretti, possibilità che oggi non è data in una logica di profittabilità di mercato che si realizza in tempi molto ristretti per obbedire alla speculazione finanziaria.

E qui sorge la questione sollevata dal libro. Il capitalismo è riformabile? Se seguissimo l’impostazione di Keynes, a cui Ciocca fa riferimento, la risposta sarebbe affermativa: «Il presupposto, tuttavia, è che, essendo i problemi globali, le nazioni abbiano di ciò piena contezza e cooperino fra loro… Questo è l’auspicio – realistico? – con cui il libro si conclude. La posta in gioco è alta, per l’intera umanità». Ma la riforma del capitalismo è appunto «realistica»? Abbiamo alcuni dubbi, non solo per il fatto che la politica sempre più protezionista e sovranista (dagli Usa, all’Europa sino all’Italia di Meloni) va in una direzione contraria ma anche perché il capitalismo contemporaneo, quello delle piattaforme, ha quasi annullato lo spazio del riformismo economico. Diversi sono i motivi.

IN SECONDO LUOGO, il processo di accumulazione ha oramai intrapreso traiettorie strutturalmente differenti da quelle del paradigma fordista, che sul patto sociale capitale-lavoro aveva fondato il suo successo. Si tratta di dinamiche che vedono nel processo di valorizzazione finanziaria il fine ultimo dell’attività economica e nella vita sussunta al capitale la principale fonte di accumulazione e sfruttamento. Il lavoro produttivo certificato e riconosciuto non è più l’unica fonte della creazione di ricchezza. Il consumo «produttivo» (prosumer), la riproduzione sociale e il lavoro di cura, le relazioni sociali, i processi di apprendimento, l’«otium» e l’«opus» (il general intellect) sono oggi gli ambiti a maggior valore aggiunto, che diventano tali grazie allo sfruttamento del lavoro manuale della logistica, dalla precarietà dei «clickworkers», dai migranti che operano nei settori agricoli e dell’edilizia, ecc.

Il capitalismo delle piattaforme impone un processo di regolazione dell’attività produttiva e dello scambio che si fonda, da un lato, sulla concentrazione del potere economico in poche mani, (dalle Gafam, al settore farmaceutico e all’apparato industriale-militare), e dall’altro, sulla crescente svalorizzazione del lavoro, stretto tra stagnazione salariale, precarietà e crescente lavoro gratuito. L’unica soluzione è la ripresa del conflitto sociale. Ma come fare? Questo è l’interrogativo dirimente.

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