Ma quanto sono vecchi e manierati i «gggiovani» secondo Campiotti. Tratto dal romanzo di Alessandro D’Avenia, Bianca come il latte, rossa come il sangue, il film non possiede né densità pastosa del primo, né la violenza sensuale del secondo. Prodotto dalla Lux Vide, cui probabilmente si deve la connotazione da anime in pena in cerca di luce «divina» degli adolescenti (tutti quei movimenti ad avvicinarsi al cielo…), il film di Campiotti è un micidiale assortimento di banalità pseudo-sociologiche annegate nelle insopportabili canzoni dei Modà. Vicenda amorosa di un triangolo sentimentale all’ombra di un liceo sotto la Mole, Leo (Filippo Schicchitano) è convinto di essere innamorato di Beatrice (Gaia Weiss, protagonista del nuovo film di Thomas Imbach) e della sua chioma fiammeggiante mentre Silvia (Aurora Ruffino), della quale tutta la scuola sa che è innamorata di Leo, resta a guardare in silenzio. La malattia che colpisce a tradimento Beatrice, costringe Leo a imparare a fare a pugni con la vita; e non solo metaforicamente.

Campiotti, in questo catalogo di banalità para-mocciane tenta di ricordarsi di essere stato un regista di una certa ambizione, ma non sarà certo il pavimento che si attacca alle scarpe di Leo, una sorta di variazione del suolo che sprofonda sotto i piedi di Spencer Tracy ne Il padre della sposa, oppure le riprese dall’altro e qualche taglio di montaggio non previsto dalla sintassi del film adolescenziale post-Muccino, a differenziare Bianca come il latte, rossa come il sangue dal resto dell’anemica compagine dei teen movie all’italiana. Rispetto alla problematica scolastica, affrontata con ben altro piglio da Giuseppe Piccioni in Il rosso e il blu, il film si limita a presentare quale panacea contro la decadenza dell’istruzione pubblica solo un volenteroso sognatore cui il bravo Luca Argentero riesce se non altro a prestare una presenza convincente nonostante si trovi tra le mani solo brandelli di buonismo da oratorio. Il problema di fondo del film di Campiotti, è che non può vantare nemmeno la sincera «insincerità» di un «lacrima-movie» d’antan, con il suo corredo di morti inevitabili e amori incommensurabili. I corpi che interpretano i «gggiovani» sullo schermo, nonostante la buona volontà degli attori, sono solo l’espressione di una categoria merceologica immaginata da un pubblicitario più o meno di centrosinistra. Il raggio delle problematiche che esprimono questi corpi è nullo: nessun desiderio, nessuna pulsione, nessuna disubbidienza. Solo l’adesione fedele a un modello/modulo calato dall’alto. Niente di più. Perversamente autoritario, il film di Campiotti è lo specchio esatto di un paese che non sa più pensare la complessità e le trasformazioni che affronta. La chiacchiera trionfa. E con essa il corredo solito di falsa coscienza fatto di rime baciate fra cuore e amore.

Quando avremo anche in Italia film d’ambientazione scolastica viscerali come Confessions di Nakashima Tetsuya o Il canone del male di Miike Takashi? In questo panorama desolante si salva solo il sorriso stilnovista della sorprendente Aurora Ruffino (già apprezzata ne La solitudine dei numeri primi), il cui saltello chapliniano nel corridoio dell’ospedale spezza il cuore. Se il film resta nella memoria per qualche minuto dopo che si sono accese le luci in sala, lo si deve solo a lei.