Se il lavoro diventa un atto linguistico performativo
FestivalFilosofia Uno stralcio dalla «lectio» che verrà discussa domenica a Modena. Oggi l'inaugurazione dell'appuntamento che giunge alla sua ventesima edizione
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In uno degli scritti più fortunati e intelligenti (ancorché sbagliato) della storia del lavoro, Il diritto all’ozio (1883), Paul Lafargue cita il «sogno di Aristotele» formulato nella Politica a partire dall’episodio dell’Iliade, nel quale Teti si reca nella officina di Efesto e vede con meraviglia che tripodi, cui il dio ha messo delle ruote d’oro, si muovono da sé, e che fanciulle d’oro, «simili a fanciulle vere», si «affaticavano a sostenere il loro signore» storpio. A partire da questo episodio Aristotele formula il proprio «sogno», scrivendo che se «le spole tessessero da sé e i plettri toccassero la cetra, i capi artigiani non avrebbero bisogno di subordinati, né i padroni di schiavi».
LAFARGUE ricorda il «sogno» perché vuole trarne un paradigma per l’emancipazione del lavoro: «Il sogno di Aristotele è la nostra realtà. Le nostre macchine dalle membra d’acciaio, infaticabili compiono docilmente da sole il loro sacro lavoro la macchina è il redentore dell’umanità, il Dio che riscatterà gli uomini dalle sordidae artes e dal lavoro salariato, il Dio che gli farà dono dell’ozio e della libertà».
L’INTERPRETAZIONE di Lafargue consiste, essenzialmente, nell’estensione al «lavoro salariato» della liberazione dal lavoro mediante sostituzione con le macchine, fino alla riduzione del tempo di lavoro a tre ore al giorno, e nel rimpiazzo della potenza degli dei con il progresso tecnologico.
Questo paradigma della liberazione dal lavoro ha avuto un notevole successo, è rinvenibile in significativi autori come B. Russell o J.M. Keynes, e, più recentemente, nella cultura del reddito di cittadinanza. Infatti, il modo di ragionare di Lafargue, in sostanza un rifiuto del lavoro in nome del rifiuto del lavoro capitalistico, prevede una crescente rarità del lavoro, sempre più sostituito dalle macchine, e quindi la necessità di compensare la riduzione di lavoro con forme di intervento statale a favore del reddito dei cittadini.
LA CULTURA SOCIALISTA e comunista maggioritaria ha invece elaborato una versione del «sogno» di Aristotele nei termini di uno sviluppo delle forze produttive che avrebbe dovuto creare più ricchezza e lavoro, e non solo più tempo libero. Il fatto è che, sia la tesi della sostituzione, sia quella della creazione di lavoro, parlano di un lavoro che appare immodificabile. Aristotele e Lafargue pongono al centro del ragionamento la sostituzione e non la trasformazione del lavoro. Se per ipotesi un giorno le macchine dovessero guastarsi, le persone tornerebbero a lavorare come facevano prima.
La riduzione dell’orario di lavoro, e della fatica, che le macchine rendono possibile, sono una grande conquista, ma non cambiano la natura del lavoro. Il paradigma, quindi, non è in grado di fuoriuscire dalla logica del lavoro capitalista, nei cui confronti propone solo misure subalterne. Analogamente non vi fuoriesce la cultura maggioritaria della sinistra, concentrata sulle conseguenze economiche del progresso tecnico, soprattutto su ridistribuzione e disuguaglianze di reddito: il paradigma di Aristotele è meccanico e non prevede mutamenti qualitativi.
La questione non è ovviamente di rifiutare il progresso tecnico, ma di chiedersi se l’attuale rivoluzione digitale sia più che l’occasione di sostituire lavoro mediante macchine – sullo sfondo inquietante di una Jobless Society cui conduce il paradigma di Aristotele-Lafargue – o di incrementare la produttività. In una recente pubblicazione ho cercato di dimostrare come l’ambiente di lavoro Cps, in cui si svolge il lavoro 4.0, trasformi l’attività lavorativa in un «atto linguistico performativo». Indipendentemente da questa proposta e da questa denominazione (ricavata da J. Austin), ho cercato di dimostrare come le nuove condizioni di lavoro della Smart Factory, anche se attualmente impiegano solo una parte dei lavori digitalizzati, favoriscano lo sviluppo del lavoro della conoscenza, che a suo tempo Bruno Trentin ha caratterizzato come un lavoro più libero, creativo e responsabile. In questo contesto non sono in gioco solo la sostituzione del lavoro ma la sua trasformazione, non solo fatti quantitativi, ma eventi legati a come la persona sperimenta qualitativamente il proprio lavoro.
IN QUANTO ATTO linguistico, il lavoro subordinato cambia profondamente la sua natura: annulla la contrapposizione tra lavoro intellettuale e manuale, rifiuta l’assunzione di valori etici esterni e, soprattutto, grazie alla conoscenza che impiega, può realizzare un forte grado di libertà nel lavoro, indispensabile all’autorealizzazione della persona.
La stessa conflittualità può assumere la forma di una battaglia per la conoscenza, per una formazione continua che non sia mera professionalizzazione. La rivoluzione digitale mette ogni impresa nella condizione di controllare in tempo reale il lavoro, ma l’innovazione richiede un coinvolgimento delle persone che solo la loro autonomia può garantire. Una libertà nel lavoro che nel conflitto sociale «viene prima» (Trentin) e non sarà regalata; ma che può essere conquistata e sancita in un nuovo contratto.
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Il ventennale del FestivalFilosofia è quest’anno dedicato alle macchine, tema discusso da 42 relatori con quasi 150 appuntamenti fra lectio magistralis, mostre e spettacoli. Tra gli ospiti: Cacciari, Galimberti, Marzano, Massini, Recalcati, Vegetti Finzi, e tra i debuttanti O’Connell, Sadin, Schnapp, Soro. Il programma è un omaggio al pensiero di Remo Bodei. Domenica 20 settembre Giovanni Mari, con una lezione su «Rivoluzione informatica e autorealizzazione della persona», sarà a Modena ai Giardini Ducali alle 11.30.
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