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Se il grido del corpo racconta l’occupazione

Se il grido del corpo racconta l’occupazione

Intervista La performance di Arkadi Zaides lavora sulle immagini di violenza nei territori occupati filmate dai palestinesi. Al festival di Santarcangelo ha presentato «Archive»

Pubblicato circa 9 anni faEdizione del 17 luglio 2015
Linda ChiaramonteSANTARCANGELO

Introiettare nel proprio corpo i gesti, gli slanci e le azioni della violenza. Restituire le immagini interpretandole, imitandole, reiterandole. L’artista Arkadi Zaides con lo spettacolo Archive, nei giorni scorsi al Festiva teatrale di Santarcangelo, rivive con la sua fisicità le immagini video realizzate da alcuni volontari palestinesi che testimoniano le continue violazioni di diritti umani perpetrate dagli israeliani. È l’incarnazione dell’aggressività di quei coloni, ripetute giorno dopo giorno, a cui il coreografo ha dato forma. Un intenso dialogo che Zaides crea con i video che scorrono sullo schermo dietro di lui.

 

 

 

La sua silhoutte si staglia e confonde con le figure del filmato, è una danza che trae ispirazioni dai lanci di sassi, da militari che avanzano e arretrano come in un drammatico balletto prima di attaccare con i lacrimogeni. Occupanti che aggrediscono, insultano, spintonano. Quelle stesse azioni diventano per Zaides un’ispirazione per vivere sulla sua pelle quell’arroganza. Pastori cacciati dai loro pascoli, ulivi tagliati per sfregio, campi incendiati, tutte azioni di sopraffazione che l’artista usa per mostrare il conflitto nel quotidiano. Il suo corpo si fa archivio, quello stesso archivio da cui ha attinto il materiale.

 

 

L’organizzazione B’Tselem, centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati, ha avviato nel 2007 il B’Tselem Camera Project distribuendo ai palestinesi delle videocamere per documentare le violazioni. Il coreografo riproduce esattamente quei movimenti, ferma la proiezione, la riprende e la manda in loop. La sua presenza sul palco si mimetizza e al tempo stesso assume un’incredibile forza. Usa la maglietta per mascherare il viso, urla e inveisce come fosse in trance. Ad un tratto sembra che tutto s’interrompa per ricominciare ancora. Zaides analizza le conseguenze somatiche dell’occupazione interrogandosi sul suo personale coinvolgimento mentre lo sguardo dei palestinesi rimane dietro la telecamera. Arkadi Zaides, coreografo indipendente nato nel ’79 nell’ex Unione Sovietica e israeliano d’adozione dal ’90, ha danzato alcuni anni con la Batsheva Company di Tel Aviv ed è stato più volte premiato come miglior artista dell’anno.

 

 

In qualche momento si avverte una certa lunghezza della performance. Sembra sul punto di finire poi ricomincia. Perché?
La mia risposta è che l’occupazione è lunga. Nelle arti performative non esiste un concetto preciso del tempo, la questione piuttosto è se c’è qualcosa di banale. La mia azione è incorporare i gesti. Bisogna attraversare quelle azioni, può sembrare tutto finito poi si ricomincia, come accade per il conflitto. Siamo consapevoli ormai che può riaccendersi in qualunque momento.
Il tuo reiterare, fermare i video, t riproporre la stessa immagine è un modo per sottolinearlo?
La videoinstallazione Capture Practice (altro tassello del lavoro presentato al festival, ndr) è in loop. Non si sa quando inizia e finisce. È stata creata per le gallerie ed evidenzia questa situazione.

 

 

Com’è nato «Archive»?
È un lungo viaggio. Sono concentrato sulla situazione israelo-palestinese da alcuni anni. Lentamente ho introdotto materiale documentario, prima la fotografia, ora il video. Filmare la realtà è un modo per occupare lo spazio. Quando ho scoperto l’archivio di B’Tselem ho sentito che la qualità delle immagini, realizzate da amatori, era fortemente fisica, grezza, instabile. Nel 2013 ho chiesto all’organizzazione di avere accesso agli archivi. Ho iniziato un lungo processo di selezione insieme a molti altri. Sono solo sul palco, ma ci sono oltre dieci persone che collaborano. Questo atto di appropriazione dei gesti è necessario per me anche per capire e percepire fisicamente. Non ero presente durante quegli episodi, ma è la mia comunità, sono degli israeliani ad agire. C’è in qualche modo un riconoscimento che i loro gesti sono anche dentro di me, come se insieme formassimo un unico corpo collettivo. Quando ho visto il materiale ho capito che la vera coreografia è fuori! È lì il vero movimento, la vera azione. Sul palco posso solo interrogarmi e incarnare quei gesti, ma in questo lavoro c’è anche una riflessione sul fallimento del teatro perché la realtà è in quello spazio. Il teatro è luogo di riflessione, una zona franca. Come si può creare un legame fra la realtà e questa zona franca? La connessione avviene attraverso il corpo e io mi prendo la responsabilità di farlo.

 

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Come è stato accolto dagli israeliani?
È un momento molto particolare in Israele, abbiamo un governo di destra. Chi viene a vedere lo spettacolo ha già una sua idea sulla questione, ma ci sono attivisti conservatori che cercano di fermare la performance. Il colono che nel video urla ripetutamente «nazi» ad un attivista è una distorsione della storia, prova che nessuno è immune al potenziale della violenza, è solo questione di stare in guardia e sapere che questa potenzialità è ovunque. Nel Paese ci sono continui tentativi di fermare il mio lavoro e altre opere d’impegno politico. Hanno cominciato da questo perché è uscito subito dopo l’operazione militare dell’estate scorsa. La prima al festival di Avignone è stata a luglio 2014, durante l’inizio degli attacchi. Appena chiusa l’operazione, ad agosto, l’ho portato in Israele. L’attività delle organizzazioni umanitarie è continuamente sotto attacco. Il campo artistico è chiuso per tutti coloro che sono impegnati politicamente e socialmente. Il mio unico modo per affrontare questa situazione è andare avanti, e lo farò finché non mi taglieranno i fondi. Ricevo ancora finanziamenti dal ministero della cultura: stanno provando a togliermeli, ma finché li ricevo sento che è la società a chiedermelo dimostrando che la mia voce è rilevante. Se ci saranno i tagli significherà che la società non vorrà più che io parli. Posso agire in altro modo. So che c’è un dibattito molto acceso. Se sarò boicottato è perché abbiamo modi diversi di operare e pensare. Non ho nei confronti del movimento una posizione ferma, penso che anche il boicottaggio possa essere fluido in base alle situazioni, altrimenti diventa una forma di «embargo».

 

 

 

 

Perché nell’ultima parte al posto del corpo sono suono e voce a diventare protagonisti?

Il processo che ho fatto sul suono inizia dal corpo. La voce è un’azione fisica. Quando la rabbia è così grande da far urlare, il corpo s’immobilizza, raggiunge un altro livello. È molto difficile urlare e muoversi contemporaneamente, per produrre un urlo bisogna concentrare tutte le energie sulla voce. In quella fase si elimina il corpo riducendo le azioni ed entrando in una sorta di trance. Tutta la fisicità è convogliata nella voce, come un istinto animale. Ho constatato che la voce è in grado di produrre confini imponendo i limiti attraverso un grido, ad esempio quando si intima a qualcuno di non oltrepassare una certa area o si pone il proprio corpo come barriera. C’è un rapporto stretto fra suoni e conflitto, quando mancano confini chiari e definiti la voce diventa il medium che li costruisce. È uno strumento di controllo che definisce uno spazio.

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