Da quando, in una soffocante giornata di luglio del 1904, le spoglie di Anton Cechov furono riportate dalla Foresta Nera a Mosca, in un vagone merci su cui, con un effetto degno dei suoi racconti comici, c’era scritto «Ostriche», innumerevoli sono state le rielaborazioni più o meno ardite del suo lascito teatrale relativamente esiguo. Alle soluzioni sceniche variamente riuscite che le pièce dello scrittore stroncato dalla tisi a quarantaquattro anni hanno ispirato ai registi di tutto il mondo, vanno aggiunte – in una vertiginosa moltiplicazione di specchi – le trasposizioni cinematografiche che si sono succedute nel tempo.

Se in Vanya sulla 42esima Strada Louis Malle nel suo ultimo film riprendeva i tentativi di una troupe newyorkese di rappresentare Zio Vanja in un vecchio teatro destinato all’abbattimento (al pari del celebre giardino dei ciliegi…), nel più recente, splendido Drive my car, Ryusuke Hamaguchi, rifacendosi a sua volta a un racconto di Haruki Murakami, si concentrava invece sulla scelta apparentemente suicida di un regista che, inscenando a Hiroshima la medesima pièce, attribuiva il ruolo di Sonja, cui è affidato l’intenso monologo finale, a un’attrice sordomuta.

D’ALTRONDE, già Vladimir Nemirovic-Dancenko, artefice insieme al collega Konstantin Stanislavskij della fortuna di Cechov drammaturgo, aveva rilevato come la cifra irripetibile del suo stile risiedesse proprio nel «non detto», ovvero in quella «grande vita» inespressa a parole che, celata dietro le sembianze talora scialbe dei suoi personaggi, di colpo erompeva in una sola, indimenticabile frase.

Con i mezzi toni con cui, secondo il regista del Teatro dell’Arte di Mosca, andava recitato Il gabbiano si cimenta ora Margherita Crepax, autrice delle nuove traduzioni proposte nell’Universale Economica Feltrinelli col titolo Teatro (pp. 336, euro 12). Libera dal manicheismo delle contrapposte letture ideologiche che per decenni hanno dipinto Cechov vuoi come un insopportabile passatista, vuoi come il profeta dell’inevitabile Rivoluzione, quest’edizione si concentra sulle quattro pièce maggiori (Il gabbiano, Zio Vanja, Tre sorelle, Il giardino dei ciliegi), con il dichiarato intento di lasciar parlare i personaggi ciascuno con la sua voce, ossia restituendo le specifiche varianti linguistiche da loro utilizzate. Enfatizzando le differenze invece di mimetizzarle dietro un improbabile registro medio, questa nuova versione si pone dunque al servizio della recitazione, rompendo con il tenace pregiudizio secondo cui i drammi di Cechov altro non sarebbero che i suoi romanzi mai scritti.

AL CONTRARIO, la traduzione di Crepax, che subentra a quelle ormai remote di Gerardo Guerrieri o Gian Piero Piretto, tenta di restituire quella «misteriosa iridescenza verbale» che un autore refrattario alle sciattezze stilistiche come Vladimir Nabokov aveva colto tra i primi, quando nelle sue Lezioni di letteratura russa affermava che la scrittura di Cechov «andava ai party con il vestito di tutti i giorni» e nondimeno sapeva rendere tutte le mirabili sfumature di grigio che vanno «dal colore di una vecchia staccionata a quello di una nuvola bassa». Dotato di quella attenzione acutissima che, come scriveva Cristina Campo, «è una feritoia aperta a tutte le frecce», Cechov ha consegnato ai suoi personaggi intuizioni sorprendenti che talora precorrono i toni cupi dell’Antropocene. Anche questo potrebbe essere uno stimolo ad accantonare il ricordo visivo delle tante rappresentazioni che si sono avvicendate negli anni e tornare a leggere le sue pagine.