Il genetista sudanese Muntaser Ibrahim dell’università di Karthoum interviene oggi al festival della scienza Trieste Next. Ibrahim è uno dei più importanti esperti mondiali di genetica africana ed è membro della «World Academy of Science» (Twas), dedicata a promuovere la scienza nei Paesi in via di sviluppo. A Trieste parlerà del superamento delle disuguaglianze tra Paesi ricchi e poveri attraverso la scienza. «Tra le disuguaglianze – spiega – c’è anche quella che riguarda le risorse umane. Le disparità globali si riflettono anche nella distribuzione degli scienziati e delle loro carriere».

Da biotecnologo, gli Ogm aggraveranno o ridurranno le disparità?
Manipoliamo il genoma sin da quando abbiamo inventato l’agricoltura. Bisogna evitare però che le biotecnologie influiscano negativamente sulla biodiversità delle varietà sviluppate dai contadini e adattate all’ambiente locale. L’interesse del mondo, ma non quello delle società produttrici di Ogm, è mantenere questa biodiversità, perché è l’arma principale di cui disponiamo per affrontare i cambiamenti ambientali a cui andiamo incontro.

Lei ha studiato a lungo l’impatto della genetica nelle malattie infettive. Il Dna conta più delle disuguaglianze economiche?
Lo sviluppo economico ha permesso di debellare molte malattie. Ma può anche diventarne un fattore scatenante, come è successo con l’asma dopo l’eliminazione dei vermi intestinali. Perciò, capire la base genetica delle malattie è fondamentale. Oggi abbiamo una nuova prospettiva sulla salute ribattezzata «One Health» che prende in considerazione l’interazione tra i genomi. Prendiamo ad esempio il microbioma (i batteri che vivono nel nostro intestino, ndr): è cruciale per il sistema immunitario, per il cervello, per tutte le funzioni vitali. Bisogna studiare l’interazione: nell’analizzare una malattia bisogna studiare sia il genoma dell’individuo che quello del patogeno. In un villaggio africano, il 50-60 per cento della popolazione ospita il parassita della malaria nel sangue. Ma non tutti sviluppano la malattia, grazie a una resistenza genetica o a una risposta immunitaria che permette loro di vivere in equilibrio con il parassita. Perciò, invece di dare a tutti lo stesso farmaco, è meglio esaminare il patrimonio genetico individuale. Si chiama «medicina personalizzata» ed è il futuro della medicina.

Però richiede tecnologie costose. È un approccio adatto ai Paesi in via di sviluppo?
Per portare in Africa la medicina personalizzata bisogna superare molti ostacoli. Non c’è solo la povertà: la grande varietà genetica della popolazione africana rende il mercato meno attraente per le aziende farmaceutiche, che dovrebbero produrre terapie per un numero di persone troppo piccolo. D’altra parte, dato che tutta l’umanità è originaria dell’Africa, si tratta di un continente-laboratorio: la nostra diversità genetica aiuterà gli scienziati di tutto il mondo a capire le basi genetiche delle malattie.

I tassi di vaccinazione contro il Covid in Africa sono molto bassi. Conta di più la scarsità di vaccini o la resistenza alla vaccinazione di molte popolazioni africane?
La resistenza nasce dal fatto che in Africa la malattia non è stata percepita come una minaccia quanto altrove. Così molte persone non hanno percepito il beneficio delle vaccinazioni. Molti si aspettavano che, a causa della fragilità dei sistemi sanitari, l’impatto del Covid sarebbe stato più pesante per l’Africa. Ma per ragioni che ancora non abbiamo capito, il Covid è stato meno grave rispetto alle Americhe o all’Europa. Per questo è necessario capire chi si ammala, chi sviluppa sintomi gravi e chi muore di Covid. Sono aspetti legati a fattori genetici, all’interazione con l’ambiente, al sistema immunitario, o all’interazione tra diversi patogeni: il Covid e altre malattie condividono molti meccanismi biologici che si influenzano a vicenda. Invece abbiamo utilizzato un approccio sorpassato alla lotta al Covid, con una strategia identica per tutto il mondo. L’Oms non poteva fare altrimenti viste le pressioni politiche. Ma nell’era del Dna sono molto scettico nei confronti di linee guida universali.

Nel 2019, durante le proteste contro il regime di Omar Al-Bashir, come oppositore fu incarcerato per due mesi. Il governo democratico successivo è durato fino al nuovo golpe militare del 2021. Come giudica la situazione del suo Paese oggi?
All’epoca della rivolta contro Bashir chiedevamo un governo tecnico che gestisse la transizione alla democrazia. Non volevamo scontri tra i partiti durante la transizione perché questo avrebbe fornito un pretesto ai militari per riprendere il controllo. Stiamo ancora combattendo per la democrazia. Credo che il governo militare abbia i giorni contati, anche se l’esercito ancora spara e uccide manifestanti pacifici, senza riuscire a fermare le manifestazioni dei giovani. La transizione alla democrazia non avverrà da un giorno all’altro. Ma il popolo e la gioventù sudanese prima o poi prevarranno.

Come l’Italia, il Sudan è stato recentemente colpito da inondazioni catastrofiche, che hanno causato centinaia di morti. Ci sono ricadute anche sul piano politico?
Il cambiamento climatico ci sta chiedendo il conto. Nel nord del Sudan non ha piovuto per secoli, ma oggi non è più così. Senza un governo democratico forte, la possibilità di rispondere a questi disastri ambientali è molto debole. Il cambiamento climatico e i problemi politici sono strettamente legati.