Cultura

Se il femminismo sa decifrare la frammentarietà delle vite

Se il femminismo sa decifrare la frammentarietà delle viteMarisa Merz (1973), foto di Paolo Pellion di Persano

SCAFFALE A proposito dei volumi di «Lavoratrici al margine», di Adriana Nannicini, e «Lo sciopero delle donne», a cura di Alisa Del Re, Cristina Morini, Bruna Mura e Lorenza Perini. Entrambi editi da manifestolibri

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 8 novembre 2019

Il lavoro delle donne, anzi «i lavori» delle donne, le loro specificità, le loro contraddizioni, le loro marginalità, sono al cuore degli ultimi due volumi pubblicati da Manifestolibri nell’indispensabile collana «Parola di Donna», curata da Teresa Bertilotti e Simona Bonsignori, che si ripromette di colmare una lacuna vistosa nel nostro panorama culturale e politico con la narrazione del «valore» della differenza femminile, al fine di sottrarre all’invisibilizzazione le molteplici sfaccettature della vita delle donne attraverso quel fascio di luce che solo un approccio consapevolmente femminista può assicurare. E per farlo individua proprio nel lavoro delle donne, produttivo e riproduttivo, retribuito o non retribuito, strutturato ma anche precario, presente quando non assente, la chiave interpretativa per leggere il ruolo di tale differenza nello spazio pubblico, in cui la sua pervasività è direttamente proporzionale all’ampia denegazione che da sempre subisce.

NEI VOLUMI di Adriana Nannicini (Lavoratrici al margine. Donne che lavorano con altre donne, pp. 106, euro 16) e di Alisa Del Re, Cristina Morini, Bruna Mura e Lorenza Perini (Lo sciopero delle donne. #Lavoro #Trasformazione del capitale #Lotte, pp. 126, euro 16), l’ottica con cui si affronta la complessa questione «lavoro (dell)e donne» insiste sul tema, decisamente dominante nell’orizzonte dell’economia neoliberale contemporanea, della precarietà a cui sono subordinate le condizioni attuali del lavoro, ma che di fatto permea di sé fino all’ultima fibra l’esistenza stessa di chi quelle condizioni è costretta a viverle. E su questo versante una visione di genere sul piano epistemologico e femminista su quello politico si rende necessaria, sia per fare chiarezza che per guadagnare conoscenza a livello di prospettiva analitica. Per dirla con le parole di Bonsignori, «la precarizzazione delle esistenze e del lavoro crea una continua emergenza che declinata al femminile peggiora e si fa strutturale».
Nel libro di Adriana Nannicini, il tema dell’intreccio tra lavoro e vita, e in particolare della sua trasformazione in un «nesso conflittuale» in cui la contrapposizione è stata acuita dall’inasprirsi di una crisi sistemica ormai più che decennale che ha marginalizzato/precarizzato le donne rispetto al mondo del lavoro, è il filo rosso di una narrazione incentrata su due concetti-chiave: «discriminazione e desiderio».

DINANZI a un contesto sociale e lavorativo che spinge sempre più la vita di ognuna verso frammentarietà, isolamento e individualizzazione, l’autrice decide di posizionarsi sui «margini» per additare, attraverso quattro movimenti, nuove direzioni euristiche e politiche da intraprendere. Si parte dal superamento dell’odierna Babele linguistica al fine di «nominare il lavoro» per mezzo di un lessico in grado di tradurre e mediare tra le tante lingue allogene delle donne straniere che oggi abitano le città; si percorre poi l’esperienza delle «donne che lavorano per altre donne» nei Centri per l’Impiego; ci si confronta poi con donne che incontrano il mercato del lavoro nella sua forma planetaria; e infine ci si interroga su quali immagini, nell’epoca della smaterializzazione e dell’invisibilità del lavoro (soprattutto femminile), costituiscano oggi l’immaginario ad esso relativo.
Nel volume collettaneo curato da Del Re, Morini, Mura e Perini procede indefessa l’azione di emersione e disvelamento (scopo esplicito della collana che li accoglie) che abbiamo già visto all’opera nel testo di Nannicini. Suo oggetto precipuo è la descrizione delle svariate forme di Welfare non retribuito («lavoro domestico» più «lavori di riproduzione necessari») storicamente e letteralmente incarnato nei corpi delle donne. Questo insieme di interventi, intersezionali nel merito e nel metodo, è anche legato a un’occasione cruciale, la fastosa celebrazione in tutto il mondo della terza giornata di sciopero femminista internazionale, indetta l’8 marzo 2019 dal movimento transfemminista globale Non una di meno.

ED È PROPRIO a indagare l’idea stessa, il senso, gli strumenti, gli scopi, le rivendicazioni di uno sciopero proclamato in nome del femminismo che sono indirizzati alcuni dei saggi del volume, in cui viene chiarito, da un lato, come solo unificando lotte per il riconoscimento a lotte per la redistribuzione si può immaginare come futuro possibile il «buon convivere» e, dall’altro, che lo sciopero femminista sia la sola arma di sovversione in grado di denunciare e contrastare la violenza come forma onnipresente di disciplinamento. Chiude il denso volume (ben nove saggi e un’introduzione, più la nota editoriale) lo sguardo di Cristina Morini sul fondamentale nesso produzione/riproduzione che è poi, in molti sensi, la cartina tornasole dell’intera raccolta. Infatti quella che qui viene definita l’«antropomorfosi del capitale» rivela il fenomeno, estremo ma tutto interno alla logica del profitto, che conduce la vita sociale nella sua interezza, financo nelle dimensioni più intime e interiori della soggettività, a venire subordinata alla valorizzazione capitalistica. Contro la quale solo il femminismo che coniuga classe e genere sembra oggi possedere le armi della critica.

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