Racconta Nadia Kaabi-Linke che gran parte delle foreste del territorio lionese sono state sradicate per far posto a fabbriche e nuovi inurbamenti. E che gli alberi autoctoni sono stati abbattuti per lasciar crescere rigogliose querce americane. È una storia che lega molti paesi del mondo quella della reinvenzione del paesaggio, ma lei, artista di Tunisi (dove è nata nel 1978) che vive e lavora a Berlino, ha colto un filo invisibile in più. Se i boschi sono l’ultima versione di vita naturale non addomesticata, qualcosa li intreccia indissolubilmente ai nostri destini umani.

Nadia Kaabi-Linke, particolare dell’installazione nella hall 3 delle Officine Fagor

«QUANDO UN ALBERO muore, accade qualcosa anche di fisico, come se si interrompesse la respirazione. La mia idea allora è stata quella di far viaggiare insieme lo spirito dell’albero e quello degli esseri umani, direttamente dentro al tronco. Lì, nelle ’vene’ interne scorrono vibrazioni che si possono trasmettere toccando la corteccia. Con la comunità lionese ho lavorato riportando alla luce lo scheletro, la struttura delle foglie, una per una. Negli incontri, ognuno mi parlava dei propri ricordi, delle persone care che non ci sono più. Ma io non volevo riconsegnare la loro testimonianza, soltanto la vibrazione emotiva, il battito del cuore. Accarezzando l’albero è come se si sentisse il corpo stesso risuonare al ritmo della memoria. E la sparizione può trasformarsi in un vento poetico, superando la malinconia».
È così che Kaabi-Linke ha interpretato il bel tema che irrora la sedicesima edizione della Biennale di Lione, quel «Manifesto della fragilità» voluto dai due curatori di Sam Bardaouil e Till Fellrath (già a Venezia al timone del meraviglioso padiglione francese di Zineb Sedira) e dalla direttrice Isabelle Bertolotti, che rovescia l’abitudine di pensare alla vulnerabilità come debolezza, rendendola invece un punto di forza, una leva di resistenza collettiva (la mostra è visitabile fino al 31 dicembre). In fondo, questa è una Biennale che ha oliato le sue assi concettuali durante la pandemia, ascoltando umori e paure degli artisti dislocati in tutto il mondo.

FORSE PROPRIO per questa ragione, è una rassegna che dopo tanta virtualità e separazione imposta dal distanziamento sociale va in cerca di radici, rintracciando una storia della città, abitando spazi dismessi (alcuni di grande fascino come il museo Guimet, scrigno dell’altrove nato dalla collezione che  si trovava originariamente a Lione, creata dall’industriale francese Emile Guimet, poi trasferita a Parigi nel 1885) e inseguendo le biografie di alcuni «fantasmi» richiamati in vita: come quella Louise Brunet, filatrice della seta di Lione, senza potere in quanto povera e donna che però diventa rivoluzionaria durante i tumulti dei Canuts nel 1834 (sarà anche arrestata).

A LEI SONO INTITOLATE alcune sezioni dell’esposizione Biennale, recuperando una figura dimenticata e creando una tessitura relazionale che lega saldamente Lione a Beirut quando – sempre attraverso il commercio della seta – lei stessa andò in cerca di fortuna in Libano, invitata da un mercante assetato di manodopera a basso costo. Guidò anche lì una rivolta, fu di nuovo imprigionata e, poi, negli archivi scompare ogni riferimento alla sua persona. Non sappiamo cosa le accadde ma i due curatori hanno scelto il suo percorso esistenziale interrotto come «corpo simbolico»: è in lei che la fragilità si veste di consapevolezza, fino alla ribellione.
Se così nella Hall 4 delle officine Fagor il belga Hans Op de Beeck mette in scena un’impressionante città postapocalittica – We Were the Last to Stay, siamo stati gli ultimi a restare – in cui tutto è congelato in un tempo pieno di polvere ed esangue, in molti altri lavori presentati nelle diverse sedi si fa appello invece a un originare della speranza (sempre con un occhio al passato e alle sue eredità), ribadendo la propria imprescindibile «umanità».

Lucia Tallova (particolare di Mountain)

L’ARTISTA DI BRATISLAVA Lucia Tallova apre l’itinerario alle Fagor con una specie di titanico armadio spogliato di rivestimenti in cui oggetti, dipinti, fotografie, collage, frammenti di ceramiche sono disposti su scaffali di legno, in un equilibrio precario. «Lavoro sulla memoria ma soprattutto sulle sue manipolazioni – afferma – perché il passato non è mai lo stesso e muta di forma»
L’urgenza della Storia è tutta concentrata in una fila di donne apparentemente banale: ognuna di loro trasporta un pacco con beni manifatturieri e ogni genere commerciabile al di là del «confine». Siamo a Ceuta, enclave spagnola nel nord del Marocco e laggiù niente è normale. Randa Maroufi, fotografa e videoasta con Bab Sebta (2018) esplora un’economia quotidiana che si scontra e confronta con il potere attraverso quegli scambi transfrontalieri, più o meno legali. Lungo la linea dei checkpoint, fluiscono cibi, elettrodomestici, vestiti arrotolati, stoffe, un’«emigrazione» quasi clandestina per poter rimanere se stessi.
E, ancora, la drammatica narrazione del presente è impressa nello stupefacente pavimento di Dana Awartani: Standing by the Ruins of Aleppo è una replica del cortile della Grande Moschea della città siriana che durante la guerra è stata gravemente danneggiata. È stata realizzata ricorrendo a tessere in terracotta provenienti da differenti paesi, lavorate con motivi geometrici e con tecniche tradizionali. Data la fragilità del materiale, tutto può deteriorarsi divenendo metafora tragica dei conflitti e della loro distruttività implacabile.

NEL PERCORSO che abbraccia tutta la città francese (dal museo storico Gadagne al Mac fino al Fourvière e al Parco de la Tête d’or, dove attraverso le vetrate di uno chalet deserto si può vedere l’installazione di Nina Beier che parte dalla fisicità grezza della materia prima, attestandone l’esistenza prima che inizi la sua lavorazione e trasformazione alchemica in «merce») una delle tappe obbligate è al museo archeologico Lugdunum, anche per la sua atmosfera un po’ mistica.
Le opere della Biennale occhieggiano fra i reperti gallo-romani; a volte, come nel caso di Filwa Nazer, sovrastano i mosaici antichi facendoli abitare da corpi-simulacro femminili e mettendo al centro del nuovo racconto la donna, spesso soggetto dimenticato.
Altre, come accade nelle pitture in grigio dell’unica italiana convocata a Lione, Giulia Andreani (1985, Venezia, vive a Parigi), si imbastisce una contro-storia: la vittoria alata si invera in una bambina mutilata che, al posto delle ali svolazzanti, ha delle stampelle come sostegno. In omaggio al titolo, è una creatura vulnerabile ma procede a testa alta lungo le strade del futuro, lasciandosi alle spalle paura e nostalgia. Sorella impavida di quelle piccole elfe arboree, lillupuziane guerriere fatate che sparge come fossero semini verdi l’artista finlandese Kim Simonsson.

 

SCHEDA

Esplorando la «golden age» di Beirut

Sono principalmente il commercio della seta nel XIX secolo con l’apertura di laboratori in Libano (e le conseguenti migrazioni di manodopera) e l’istituzione del Mandato francese nel 1920 a indicare le porte d’accesso attraverso cui entrare nella bellissima mostra a scatola cinese ospitata dalla Biennale di Lione presso il museo Mac: se la «vulnerabilità» è il concetto centrale, il suo rovesciamento nel desiderio e la sperimentazione di un’esistenza diversa esplode nei tumultuosi anni ’60 della «golden age» di Beirut: a raccontarla magnificamente ci sono 230 opere di 34 artisti e più di 300 documenti d’archivio provenienti da circa 40 collezioni in tutto il mondo (la rassegna, che però qui ha una sua specificità, aveva avuto anche una tappa al Gropius Bau di Berlino).