La genesi fratricida di Roma fu siglata dal volo di avvoltoi che sorvolarono Aventino e Palatino in numero e modi tanto dubbi da scatenare la lite che avrebbe ucciso Remo. Ma nel 2022 nessun vulture incrocia nei cieli sporchi della capitale. Certo sui tetti del centro nidificano i gabbiani: erano metafora di libertà, sono ormai associati al degrado. Grande è poi la confusione sotto le ali dei parrocchetti: in un Tevere non più biondo sguazzano pesci siluro, tartarughe dalle orecchie rosse, gamberi della Louisiana.

LA FABULA DI ROMA è un intreccio di schiavitù date per eterne e di sogni caparbiamente tessuti. E se a papi e cesari hanno saputo rispondere eretici e tirannicidi, alti e bassi delle vicende umane sono perennemente intrecciati con le sofferenze delle altre specie viventi. Gabbie, storie aliene eppure nostre, i cui sviluppi sono ora tratteggiati da un saggio pubblicato da Jacopo De Grossi Mazzorin e Claudia Minniti: Gli animali a Roma. Tre millenni di interazione con l’uomo (All’Insegna del Giglio editore, pp. 342, euro 42).
Il libro, integrando i dati archeozoologici con la letteratura, le epigrafi, le fonti iconografiche, copre un periodo che dall’Età del ferro arriva al Rinascimento. I risultati si basano sull’analisi di oltre sessantamila resti, rinvenuti non solo tra Colosseo, Palatino e Fori, ma anche a Centocelle, Gabii, Fidene, Veio.
Ne risulta una stratigrafia di biologie che si arricchiscono, si impoveriscono e cambiano volto, restituendoci a specchio il nostro, perché gli animali ci hanno vestito, fornendo pelli e accessori; arricchito, spingendo aratri e mulini; acculturato, alimentando espressioni artistiche e religiose. Il cane, il bue, la pecora, la capra e il maiale c’erano già nel Neolitico. Qualche millennio dopo arrivarono il cavallo e l’asino. Quindi il gatto e le galline. Con l’Impero, i romani videro leoni, leopardi, struzzi, coccodrilli e cammelli. Nessuno di essi si fermò, come invece avrebbero fatto, nel Medioevo, l’istrice, il daino e quei bufali che, a Paestum, sembrarono a Winckelmann classici quanto i templi dorici. Il castoro e la lontra, invece, scomparvero dopo i fasti del Barocco.

È GIUSTA LA VISIONE che abbiamo della Roma pastorale delle origini: tra il IX e il VI secolo a.C., pecore e capre erano più importanti di bovini e suini. Ma poi furono i maiali a farla da padroni. Una testimonianza delle carni consumate dagli spettatori sugli spalti del Colosseo è per esempio offerta dalle indagini effettuate nel condotto fognario presso il trentatreesimo cuneo: le ossa di suino rappresentano quasi il 90% del totale. E nell’editto De pretiis, un calmiere promulgato nel 301 d.C. da Diocleziano per combattere l’inflazione, si stabilisce che la carne suina dovesse costare al massimo dodici denari alla libbra, quattro in più rispetto a quelle vaccina e ovina.

ALL’EPOCA SI MANGIAVA anche pollo, come d’abitudine dal tempo delle guerre sannitiche. Prima, però, galline e soprattutto galli erano legati a pratiche cultuali: lo dimostrano i resti di settantuno individui trovati a Centocelle, in un cunicolo datato alla fine del IV secolo a. C.
Leggendo il saggio, si resta colpiti dagli oltraggi gratuiti inflitti all’orso. Non che se la passasse bene tra i pagani del Nord, i quali ne mangiavano le carni e bevevano il sangue per assorbirne la forza. Si trattava tuttavia di pasti rituali: il valore della preda era rispettato.

NEL MEDIOEVO, al contrario, gli orsi furono vittime di un accanimento senza precedenti, se si escludono i draghi dell’epica. Dai cristiani, furono derisi e schiavizzati. San Silvestro li costringeva a portare pesanti bagagli, San Colombano invadeva le loro caverne, San Gallo pretendeva che lavorassero per innalzare il suo eremo. A Roma, semplicemente, sappiamo che ci si nutrì di orso alle Terme di Diocleziano e che dalle loro pelli si ottennero pellicce alla Crypta Balbi.
Più grandi ancora sono i pachidermi. Anche se possenti e lontani, nemmeno loro si sono salvati da Roma. Annone era un elefante albino. Manuel I, re di Portogallo, lo offrì a Leone X, che entusiasta fece costruire per lui una prigione dorata a Borgo Sant’Angelo.
Il sovrano pensò allora di regalare al papa anche un rinoceronte, ma questi annegò al largo di Porto Venere. La sua carcassa, ripescata in Costa Azzurra, fu imbalsamata e indirizzata di nuovo al Vaticano, dove fu esposta fino al 1527, quando andò perduta durante il sacco dei lanzichenecchi.

NON SE NE PERSE però la memoria, eternata nelle xilografie di Albrecht Dürer, in cui compare con una corazza simile a quella indossata dai soldati del Cinquecento e con un assurdo corno sulla schiena, quasi che l’evasione nel campo dei bestiari fantastici potesse riscattare la cruda realtà delle violenze subite.
Per fortuna ci sono anche cani e gatti, a soddisfare l’ingente domanda di umanità a carico della Storia. Il gatto, anche se già raffigurato a Tarquinia in una tomba del V secolo a.C., a Roma si diffuse appena nel I secolo d.C. Il cane era arrivato prima, ma ricordava la lupa, i gemelli e il culto infero dei Lupercalia. Da qui il rimando a un bisogno di purificazione che ne comportava il sacrificio. Migliore amico dell’uomo, sì: Argo, ma anche Cerbero a guardia dell’Ade.

QUESTI I RISCHI per un animale domestico. Peggiori quelli per chi era nato in libertà e mai sarebbe riuscito a smaterializzarsi, come soltanto può la giraffa che svanisce davanti agli occhi stanchi di Jep Gambardella, tra le rovine morali delle Terme di Caracalla. Nel 250 a.C., il console Lucio Cecilio Metello portò a Roma centoquarantadue elefanti catturati ai Cartaginesi nella battaglia di Panormo. Li fece sfilare in trionfo. I legionari li trucidarono al Circo Massimo. In occasione dell’inaugurazione del Colosseo, nel 80 d.C., furono massacrati oltre cinquemila animali: leoni, leopardi, pantere e tigri, elefanti, rinoceronti, bufali. Traiano, vittorioso sui Daci, nel 107 ne uccise undicimila.
Con Probo ci fu un ulteriore salto di qualità. La morte divenne un reality show in linea con l’idea che l’imperatore doveva avere del romano medio quando, nel 281, nel corso di una venatio al Circo Massimo fu piantata una finta foresta, nella quale furono liberati mille struzzi. A un segnale del cesare, gli spettatori ebbero licenza di sterminarli nel modo che preferissero.
E gli avvoltoi che, quando tutto ebbe inizio, erano stati chiamati a scegliere tra Romolo e Remo? Sono stati identificati i resti di un solo esemplare. Come una eucarestia terragna, lo marcano tracce di macellazione, definitiva secolarizzazione di una mitopoiesi inconcludente nel cuore stesso di Roma: il Foro.