Se «I giovani del Po» di Italo Calvino diventano francesi
Anticipazioni Un breve stralcio dalla prefazione del poeta e saggista che ha curato la traduzione del testo calviniano, che l'autore stesso considerava un fallimento
Anticipazioni Un breve stralcio dalla prefazione del poeta e saggista che ha curato la traduzione del testo calviniano, che l'autore stesso considerava un fallimento
Ci sono opere che hanno una storia travagliata e finiscono per inabissarsi prima ancora di essere uscite allo scoperto: è stata questa la sorte di un romanzo di Italo Calvino, I giovani del Po, che – completato nel 1951 dopo un’elaborazione faticosa durata circa tre anni – non venne considerato degno di pubblicazione dal suo autore. Solo qualche anno dopo, tra il ’57 e il ’58, su insistenza di Pier Paolo Pasolini, il libro uscì a puntate sulla rivista Officina, accompagnato però da una nota severa di Calvino che lo definiva senza mezzi termini un fallimento. E pure oggi un’edizione del romanzo manca, anche se i più ostinati lo possono trovare in fondo al terzo volume del Meridiano che raccoglie l’opera narrativa di Calvino.
Non è quindi esagerato definire un piccolo avvenimento editoriale la sua recentissima pubblicazione in francese per la piccola e raffinata casa editrice parigina Cahiers de l’Hôtel de Galliffet diretta dal torinese Paolo Grossi e dedicata alla riscoperta di testi dimenticati o poco noti del Novecento italiano (Les jeunes du Pô, pp. 164, euro 18). A tradurre e a curare il testo è il poeta e saggista Martin Rueff, in questi giorni a Roma per partecipare con Fabio Gambaro all’incontro Lo scoiattolo sulla Senna. L’avventura di Calvino a Parigi nell’ambito del progetto «Enciclopedia Calvino» (Scuderie del Quirinale, giovedì 18 alle 18) e per presentare la traduzione italiana della sua raccolta di poesia Icaro grida in un cielo di creta uscita da Samuele Editore/Pordenonelegge (l’incontro si tiene oggi alle 18.30 presso la libreria Tomo con la partecipazione di Guido Mazzoni). Dalla prefazione di Rueff a Les jeunes du Pô proponiamo un breve stralcio. (maria teresa carbone)
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Che cos’è un personaggio? È una tensione singolare, una linea di forza nel linguaggio, non una marmellata. Forse lo scoglio principale de I giovani del Po sta nella difficoltà di descrivere i personaggi come linee di forza nel linguaggio. E se è vero, come dimostra Francesca Serra seguendo l’indicazione di Calvino, che Il visconte dimezzato affronta la stessa questione de I giovani del Po – cioè la divisione dell’uomo moderno, la sua incapacità di essere tutt’uno con se stesso; se è vero che, fin dal nome, Nino e Nanin sono come due facce di uno stesso individuo, è lecito chiedersi se la soluzione offerta dal Visconte non sia facile: fare a meno del personaggio, perché il visconte non è un personaggio ma una figura, un tipo, un’esile e piacevole astrazione. Il che non vuol dire che la soluzione adottata nei Giovani del Po funzioni in pieno, ma che essa mirava a una soluzione dialettica nell’esistenza e non a una soluzione figurativa nell’astrazione.
E ancora. Tra I giovani del Po e Il visconte dimezzato c’è Pavese. Perché quello che a Pavese piaceva del Sentiero dei nidi di ragno era proprio che Calvino facesse a meno dei personaggi: «A ventitré anni Calvino sa già che per raccontare una storia non è necessario ‘creare personaggi’, ma che bisogna saper trasformare i fatti in parole. Lo sa con leggerezza e disinvoltura, come un bambino. Non ha paura delle parole: purché significhino qualcosa, purché servano a qualcosa, le dice, le scava, le snocciola, può lanciarle, come noi gettiamo rami sul fuoco, ma l’obiettivo è la fiamma, il calore, la padella».
Le figure del Sentiero non sono grandi personaggi. Per questo Pavese vede in Calvino un narratore più leggero: «C’è un sapore di Ariosto qui. Ma l’Ariosto del nostro tempo si chiama Stevenson, Kipling, Dickens, Nievo e ama travestirsi da ragazzo». Paura dell’influenza? Calvino ammira Pavese, che sa far esistere nel linguaggio le linee di forza dei personaggi più diversi; Pavese ammira Calvino perché sa fare a meno dei personaggi; Calvino compone una narrativa «realistica» in cui fa esistere i personaggi per fare come Pavese; soffre di non saperli far parlare come vorrebbe. Pavese non era più lì a consigliarlo.
Possiamo aggiungere un ultimo tassello al dossier. Nel 1958 Calvino scrisse a Lanfranco Caretti, che gli aveva proposto una ricostruzione della sua opera per un programma radiofonico. Calvino chiedeva: «E poi, come faresti a collegare I giovani del Po e La speculazione edilizia? Là, il gergo linguistico, la distanza tra i personaggi e l’autore, che può essere colmata solo da un certo lirismo pavesiano, lo schermo del personaggio non istruito; qui la psicologia, l’autobiografia, la narrazione estremamente minuziosa, la tendenza al saggio intellettuale… Sono davvero due libri sulla stessa linea? E parlando sempre di realismo, non stiamo perdendo tutte le sfumature che sono essenziali se non vogliamo sprofondare nella vaghezza? Non è l’argomentazione del personaggio-schermo a colpire, né la critica del gergo o la condanna dell’uso indeterminato del termine realismo.
Ciò che colpisce è l’evocazione del lirismo di Pavese: il «lirismo pavesiano» come soluzione. Tra la concezione realistica dei personaggi e la leggerezza del Visconte, c’è forse una terza via: quella del personaggio lirico. (traduzione di Maria Teresa Carbone)
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