Cultura

Se «I giovani del Po» di Italo Calvino diventano francesi

Se «I giovani del Po» di Italo Calvino diventano francesiItalo Calvino, Torino, 1954 – Foto LaPresse

Anticipazioni Un breve stralcio dalla prefazione del poeta e saggista che ha curato la traduzione del testo calviniano, che l'autore stesso considerava un fallimento

Pubblicato 10 mesi faEdizione del 16 gennaio 2024

Ci sono opere che hanno una storia travagliata e finiscono per inabissarsi prima ancora di essere uscite allo scoperto: è stata questa la sorte di un romanzo di Italo Calvino, I giovani del Po, che – completato nel 1951 dopo un’elaborazione faticosa durata circa tre anni – non venne considerato degno di pubblicazione dal suo autore. Solo qualche anno dopo, tra il ’57 e il ’58, su insistenza di Pier Paolo Pasolini, il libro uscì a puntate sulla rivista Officina, accompagnato però da una nota severa di Calvino che lo definiva senza mezzi termini un fallimento. E pure oggi un’edizione del romanzo manca, anche se i più ostinati lo possono trovare in fondo al terzo volume del Meridiano che raccoglie l’opera narrativa di Calvino.
Non è quindi esagerato definire un piccolo avvenimento editoriale la sua recentissima pubblicazione in francese per la piccola e raffinata casa editrice parigina Cahiers de l’Hôtel de Galliffet diretta dal torinese Paolo Grossi e dedicata alla riscoperta di testi dimenticati o poco noti del Novecento italiano (Les jeunes du Pô, pp. 164, euro 18). A tradurre e a curare il testo è il poeta e saggista Martin Rueff, in questi giorni a Roma per partecipare con Fabio Gambaro all’incontro Lo scoiattolo sulla Senna. L’avventura di Calvino a Parigi nell’ambito del progetto «Enciclopedia Calvino» (Scuderie del Quirinale, giovedì 18 alle 18) e per presentare la traduzione italiana della sua raccolta di poesia Icaro grida in un cielo di creta uscita da Samuele Editore/Pordenonelegge (l’incontro si tiene oggi alle 18.30 presso la libreria Tomo con la partecipazione di Guido Mazzoni). Dalla prefazione di Rueff a Les jeunes du Pô proponiamo un breve stralcio. (maria teresa carbone)

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Che cos’è un personaggio? È una tensione singolare, una linea di forza nel linguaggio, non una marmellata. Forse lo scoglio principale de I giovani del Po sta nella difficoltà di descrivere i personaggi come linee di forza nel linguaggio. E se è vero, come dimostra Francesca Serra seguendo l’indicazione di Calvino, che Il visconte dimezzato affronta la stessa questione de I giovani del Po – cioè la divisione dell’uomo moderno, la sua incapacità di essere tutt’uno con se stesso; se è vero che, fin dal nome, Nino e Nanin sono come due facce di uno stesso individuo, è lecito chiedersi se la soluzione offerta dal Visconte non sia facile: fare a meno del personaggio, perché il visconte non è un personaggio ma una figura, un tipo, un’esile e piacevole astrazione. Il che non vuol dire che la soluzione adottata nei Giovani del Po funzioni in pieno, ma che essa mirava a una soluzione dialettica nell’esistenza e non a una soluzione figurativa nell’astrazione.
E ancora. Tra I giovani del Po e Il visconte dimezzato c’è Pavese. Perché quello che a Pavese piaceva del Sentiero dei nidi di ragno era proprio che Calvino facesse a meno dei personaggi: «A ventitré anni Calvino sa già che per raccontare una storia non è necessario ‘creare personaggi’, ma che bisogna saper trasformare i fatti in parole. Lo sa con leggerezza e disinvoltura, come un bambino. Non ha paura delle parole: purché significhino qualcosa, purché servano a qualcosa, le dice, le scava, le snocciola, può lanciarle, come noi gettiamo rami sul fuoco, ma l’obiettivo è la fiamma, il calore, la padella».
Le figure del Sentiero non sono grandi personaggi. Per questo Pavese vede in Calvino un narratore più leggero: «C’è un sapore di Ariosto qui. Ma l’Ariosto del nostro tempo si chiama Stevenson, Kipling, Dickens, Nievo e ama travestirsi da ragazzo». Paura dell’influenza? Calvino ammira Pavese, che sa far esistere nel linguaggio le linee di forza dei personaggi più diversi; Pavese ammira Calvino perché sa fare a meno dei personaggi; Calvino compone una narrativa «realistica» in cui fa esistere i personaggi per fare come Pavese; soffre di non saperli far parlare come vorrebbe. Pavese non era più lì a consigliarlo.
Possiamo aggiungere un ultimo tassello al dossier. Nel 1958 Calvino scrisse a Lanfranco Caretti, che gli aveva proposto una ricostruzione della sua opera per un programma radiofonico. Calvino chiedeva: «E poi, come faresti a collegare I giovani del Po e La speculazione edilizia? Là, il gergo linguistico, la distanza tra i personaggi e l’autore, che può essere colmata solo da un certo lirismo pavesiano, lo schermo del personaggio non istruito; qui la psicologia, l’autobiografia, la narrazione estremamente minuziosa, la tendenza al saggio intellettuale… Sono davvero due libri sulla stessa linea? E parlando sempre di realismo, non stiamo perdendo tutte le sfumature che sono essenziali se non vogliamo sprofondare nella vaghezza? Non è l’argomentazione del personaggio-schermo a colpire, né la critica del gergo o la condanna dell’uso indeterminato del termine realismo.
Ciò che colpisce è l’evocazione del lirismo di Pavese: il «lirismo pavesiano» come soluzione. Tra la concezione realistica dei personaggi e la leggerezza del Visconte, c’è forse una terza via: quella del personaggio lirico. (traduzione di Maria Teresa Carbone)

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