Mentre l’invasione russa dell’Ucraina è ancora in atto sugli scaffali delle librerie si trovano già le opere di diversi giornalisti che hanno seguito l’inizio del conflitto sul campo. In Maledetti pacifisti (People, pp. 157, euro 12) l’inviato Rai Nico Piro, invece, adotta un punto di osservazione diverso. A causa del divieto di ingresso ricevuto da Kiev per una trasferta lavorativa in Donbass nel 2019 non ha potuto raggiungere il paese e i territori in cui si combatte. Come durante l’aggressione alla Georgia e soprattutto il lungo conflitto afghano. Stavolta resta nelle retrovie e da lì si concentra sulla narrazione dell’evento bellico e sugli effetti prodotti nel fronte interno, cioè il dibattito politico italiano.

DA VICINO il conflitto militare è «merda, sangue e fango, quasi sempre versato da innocenti», ma a distanza viene «venduto» come un prodotto tra gli altri. Seguendo specifiche strategie di marketing. «Se non conoscessi la guerra mi sarei già convinto che la fine è vicina», scrive Piro a maggio. Nelle prime settimane dell’attacco il leitmotiv politico-mediatico è la caduta di Putin ormai prossima, magari per una congiura di oligarchi irritati dal sequestro dei mega yacht o per un’insurrezione del popolo affamato dalle sanzioni. Non succede.

Il focus della narrazione si sposta sull’esaltazione del Davide pronto a battere Golia. Ogni nuovo invio di armi – dagli elicotteri ai tank ai missili himars – dovrebbe segnare la svolta, l’inizio del contrattacco. Una visione «rassicurante», sostiene Piro, che serve a dire: c’è un prezzo da pagare, ma ce la caveremo. Assomiglia un po’ a quell’«andrà tutto bene» che durante la pandemia era appeso ai balconi, con gli arcobaleni sullo sfondo. Gli striscioni sono scomparsi o sbiaditi, i riflettori sul virus si sono spenti, ma il Covid-19 continua a mietere vittime. Qualcosa di analogo rischia di accadere in Ucraina dove il giornalista denuncia il rischio di «afghanizzazione» del conflitto, cioè della sua trasformazione in un pantano da cui i due schieramenti non riusciranno a tirarsi fuori.

IL PIANO DEL DISCORSO può sembrare secondario mentre intere città finiscono sotto le bombe russe o migliaia di civili ucraini perdono la vita, ma la convinzione dell’autore è che l’unica speranza di mettere fine alla guerra sia una soluzione diplomatica. Una strada che nessuno crede priva di grandi ostacoli ed enormi fatiche, ma che rimane l’unica percorribile. Nonostante sia trattata alla stregua di un capriccio.
Le retoriche con l’elmetto, invece, alimentano l’idea della resa dei conti definitiva tra bene e male ma non chiariscono cosa significhi «vittoria», allontanando la possibilità che i due contendenti possano trattare davvero. Cioè che si dispongano a cedere qualcosa al nemico. Precondizione necessaria di qualsiasi accordo di pace, a meno di sognare una vittoria totale che stavolta potrebbe ridurre il mondo in un cumulo di polvere nucleare.

Parallelamente si militarizza anche il dibattito interno ai vari paesi coinvolti. Piro conia la sigla Pub, «Pensiero unico bellicista», per indicare quel discorso che si impone come l’unico pronunciabile, capace di distinguere in maniera infallibile il vero (Kiev) dal falso (Mosca). Chi dissente o esprime dubbi è automaticamente amico del nemico, filo-putin, traditore della patria. O un maledetto pacifista: perché chi chiede la pace è puntualmente accusato di volere la resa degli ucraini.

IL NUOVO SOLCO della politica italiana diventa così la fedeltà assoluta, cioè la subalternità cieca, all’alleato statunitense e al patto atlantico. Adesso stare dentro l’alleanza militare significa adottarne la visione del mondo: un pacchetto completo dalle relazioni globali all’aumento della spesa militare. «È come se ora la politica debba ispirarsi ai valori dell’atlantismo più che a quelli della Costituzione», scrive Piro. La campagna elettorale in corso non lo ha smentito.