Dalle pagine di Jane Austen a quelle di Irène Némirovsky, dalle descrizioni di Tomasi di Lampedusa a quelle di Mercé Rodoreda, il ballo è un luogo carico di socialità attraverso cui si impara il desiderio, facendolo fluire dal corpo all’eleganza silenziosa del gesto. Che il suo peso sia centrale come in Orgoglio e pregiudizio – in cui lo sfiorare una mano corrisponde a un avvicinamento rappreso e potente-, o che sia invece marginale come nella scena iniziale di La piazza del Diamante – dove un ragazzo insiste nell’invitare la sua attraente Colombetta -, appare chiaro si tratti di un fenomeno culturale e di uno specchio del contesto materiale in cui è collocato.

Volteggiano le parole, se stanno in asse come i corpi che si incontrano e si toccano. Lo spiega bene a tutt’altra latitudine Ursula Le Guin quando rammenta – in un breve saggio del 2004 – quanto sia importante la fiducia tra chi scrive e chi legge. Bisogna considerare la storia come una danza, dice. Lo scrittore – o la scrittrice – conduce, ma guidare non significa punire, bensì creare un campo di reciprocità in cui due persone possono muoversi insieme nella grazia. Bisogna essere in due, aggiunge, per ballare il tango. Impariamo a ballarlo allora, una volta provato non si sarà più disposti a farsi maltrattare. Che sia proprio Ursula Le Guin, e non Jorge Luis Borges, a dire questa semplicità della relazione è un rilievo interessante. Al netto di ciò che il tango significhi infatti è evidente che la sua modalità di essere un’eminente relazione fra due esseri umani – la maggior parte delle volte sconosciuti, restando tali – è passata lungo i continenti e i secoli per depositarsi, infine, nell’immaginario non solo argentino.

QUALE SIA LA QUALITÀ della relazione di cui stiamo parlando lo spiega la poeta canadese Anne Carson in uno dei suoi libri più attesi ora disponibile grazie alla casa editrice La Tartaruga – diretta con rigorosa visionarietà da Claudia Durastanti – dal titolo La bellezza del marito. Un saggio romanzato in 29 tanghi (traduzione di Chiara Spaziani, pp. 167, euro 18). Ibrido letterario tra prosa e poesia, questo volume pubblicato nel 2001 (alcuni frammenti erano apparsi nel 2019 nella rivista «Nuovi Argomenti» con la traduzione di Patrizio Ceccagnoli e una raffinata nota di Antonella Anedda) ha al centro lo stesso tema che Carson insegue in ciascuno dei suoi lavori: il desiderio, nella infinita declinazione che esso prevede.

Maestra di etimologie, la poeta si immerge in modo speciale nei significati, nelle assonanze e consonanze che esistono fra i termini, li fa scintillare. Anche qui, come altrove, il punto di guadagno sul linguaggio conferma la domanda riguardante lo spreco delle parole e che poi la fa arrivare alla risposta fornita in Economia dell’imperduto, è lì che quel suo «unlost» è esattamente ciò che non può essere negoziabile, ovvero ciò che è inconsumabile, il linguaggio stesso. Un tale esito fa in modo che anche qui la nominazione del tango non sia facile suggestione bensì ordito sottile dell’immaginazione che offre un ritmo specifico all’andatura dei versi.

Brevissimi e molto lunghi, sono essi suddivisi in 29 piccole sezioni (che lei battezza come tanghi, appunto) e in cui, al di là dell’omaggio a John Keats, spiccano Omero, Charlotte Bronte, Huizinga e altri. Li riscontriamo nelle stanze inaspettate di Carson che non si fa trovare mai dove chi legge suppone.

SONO INCROCI all’apparenza fugaci che pure consentono di tracciare il lentissimo apprendistato al disfacimento coniugale. E dell’amore, diremmo più in generale, ricordandosi che niente permane tranne il legame. Se il titolo del libro nomina un tema centrale, ovvero la bellezza di un ragazzo che una quindicenne nota tra i banchi di scuola fino a innamorarsene, l’esperienza che consegna Carson è quella del vincolo dapprima sentimentale e poi matrimoniale. Vi sono dunque un marito e una moglie senza nomi propri, colti nella imprudenza dell’età a condividere una unione, che è «posto malfermo», agitata dapprima da un selvatico possesso sessuale che negli anni si scontra con la crescita della personalità di entrambi, divaricandone le strade, con un desiderio che deflagra e continuamente deraglia sia per l’attenzione di lui verso altre donne, sia per gli sprofondi di lei.

La capacità di Anne Carson risiede però in costanti allusioni ed elisioni in cui cose e accadimenti potrebbero richiedere maggiore sforzo di indagine. Così i nomi per esempio di due delle ragazze con cui si intrattiene il marito, Merced e Dolor, potrebbero rappresentare anche due dei capisaldi dell’incontro d’amore di ogni tempo e spazio per la loro contiguità alla misericordia, alla grazia. E al dolore. E al contempo possono essere altrettante creature abbandonate di cui i testi del tango sono colmi.

Se però non esiste tango senza relazione, esistono relazioni senza tango, senza cioè la delicatezza di respirare insieme nell’abbraccio, senza la generosità che si deve ai viventi con cui si cammina insieme per lo spazio che una musica concede. Carson utilizza il tango come uno degli oggetti allegorici e definitori del rapporto tra i sessi restituendo le sue analisi sul desiderio, punto fondante di tutta la sua ricerca, poetica e filosofica, da Eros il dolceamaro oppure Autobiografia del Rosso e altri. In ciascuno di questi libri ciò che si evince è che il desiderio non conosce delega, come non conosce proprietà, è fragile e può affaticare per eccesso di imperizia, però resta libero. Ché l’esperienza erotica è un simbolico della mente, qualcuno direbbe dell’anima, oltre che della carne. E che al di là della soggettività degli amanti vi è un terzo luogo a prodursi ovvero la differenza tra i due, e l’imprevisto che svetta dalla consunzione.

COSA SIA LA «BELLEZZA» paventata nel titolo ce lo consegna con assoluta maestria e ironia nelle ultime battute di questo annunciato declino dei sensi che non hanno tenuta dinanzi all’avanzare opaco dei giorni, si tratta dell’incantamento verso un uomo amato ed emotivamente analfabeta, «triste e adombrato», patetico quanto basta per renderlo prossimo a molti suoi simili, e d’altra parte si assiste al suo rovescio, cioè che bellezza e verità talvolta coincidono ma bisogna considerare come non possano darsi mai nel loro essere intatti, né l’uno né l’altro: «Sottovalutavo una cosa./ Che quando lo incontrai il bello si sarebbe rivelato/ prima – dentro il mio stesso cuore/ già divorato».

Il salto allora lo si fa nella trasformazione di sé, non a caso attraverso Preludio para el año 3001 (l’unico tango, assai recente, citato esplicitamente nel testo) scritto dall’uruguaiano Horacio Ferrer che invoca la «rinascita», perché nascere una sola volta, soprattutto quando si sta in paraggi cosiddetti amorosi o presunti tali, non sembra essere mai abbastanza. Quando cioè quel «terzo» prodotto dagli amanti quanto più è gioioso e intenso tanto più velocemente viene gettato via, senza cura. E con un certo disgusto.

SE LE PAROLE DANZANO su un piano di comprensione in cui l’altro è ipotesi di contatto, nella esatta distanza che Anne Carson descrive, dobbiamo al lavoro della francese Belinda Cannone l’incedere sicuro verso la ricomposizione materica del concetto di desiderio, fin dal suo Petit éloge du désir quando scrive della «assunzione dell’alterità» là dove suppone, attraverso il personaggio di Beloizo, di rivolgersi a un «tu» con cui iniziare un confronto sul tema. Appetito, pura energia o incontro che segue un movimento di distinzione ed elezione e che rende amabile un altro essere umano proprio per la sua stessa alterità, il desiderio per Cannone non può privarsi di ciò che i corpi sentono. Rispetto ad Anne Carson, che utilizza il tango come circostanza fortuita, vagheggiandolo ruolizzato e per questo parziale nella complessità custodita da chi invece lo pratica, la filosofa francese prosegue il ragionamento per entrare in medias res, da ballerina di tango che riconosce in questa specifica prassi una chiave esclusiva di prossimità a se stessa e agli altri, per raggiungere un «tu» che non sia più estraneità.

Scrittura sensoriale di temperatura teorico-pratica elevata nel suo ultimo Petit éloge de l’embrassement (Gallimard, pp. 122, euro 2) il nodo ineguagliabile diventa l’abbraccio, l’effimero che non bara. E non solo perché la danza argentina si mostra in milonga attraverso di esso ma perché un tale «filo gioioso» le serve per continuare a discutere di relazione; secondo l’autrice, il tango si muove infatti sulla connessione e l’improvvisazione tra i due ballerini e sono essi due elementi, connessione e improvvisazione, che disegnano «il programma della stessa esistenza». Se è vero che in qualsiasi danza che prevede un «due» può darsi il contatto e questo gioco dei ruoli, che saltano continuamente e si ricontrattano nelle reciproche imperfezioni, la scoperta della intimità è un dialogo che si genera nella imprevedibilità degli incontri. Perciò, diversamente dal romanticismo d’accatto entro cui solitamente si veicola, l’abbraccio è marca della condizione umana: nelle sue miserie, come nelle sue altezze inaddomesticabili e più lucenti. L’importante è ballare, nella gratitudine di un’emozione in mano altrui che avvolge. E talvolta sente. Certo bisognerebbe pensarci bene, prima di fare questo passo.