Se Cesare muore ogni volta
La storia Una giornata nel penitenziario romano, con gli attori-detenuti protagonisti del film dei fratelli Taviani Orso d’oro a Berlino. Che, a riflettori spenti, continuano a mettere in scena un Generale la cui uccisione ha un effetto, più che rieducativo, terapeutico
La storia Una giornata nel penitenziario romano, con gli attori-detenuti protagonisti del film dei fratelli Taviani Orso d’oro a Berlino. Che, a riflettori spenti, continuano a mettere in scena un Generale la cui uccisione ha un effetto, più che rieducativo, terapeutico
«Ma che simm’ bestie? Animali pericolosi?»,sento la voce dietro di me pronunciare con rabbia e forza questa frase. Sono in una piccola sala, in penombra e non riesco a distinguere a chi appartenga questa esternazione. Sicuramente uno dei tanti napoletani qui presenti.
Ecco, immaginatevi questa scena. Una ventina di persone in uno spazio piccolo e buio, e fuori un signore, un funzionario, il direttore probabilmente o un brigadiere, che pronuncia con costernazione «…e mi raccomando, fate attenzione… sono in ogni caso dei soggetti molto pericolosi!»..
Siamo a Rebibbia, nuovo complesso, Sezione alta sicurezza. Ho chiesto a Fabio Cavalli e alla sua collaboratrice Daniela Marazita di poter realizzare un servizio sullo spettacolo che stanno per mettere in scena con i detenuti del nuovo complesso. Casi tremendi. Eppure nessuna bestia. Senza retorica, ma è così.
Ho trascorso con loro già la giornata precedente, la prova generale, cinque ore, chiuso a Rebibbia per raccontare questa storia. In un certo senso è un ritorno al passato, in effetti. Anni fa collaboravo con una associazione che si occupava del reintegro dei detenuti, e dell’attività da svolgere in carcere anche in funzione terapeutica e re-socializzante.
Così dopo aver visto il film vincitore dell’Orso d’oro a Berlino, dei fratelli Taviani, mi sono appassionato a questa vicenda, al film anche, e mi sono chiesto cosa fosse accaduto ai Carmine Bruno Antonio Gennaro Ciro (nomi di fantasia…), una volta che le luce della ribalta del prestigioso premio si erano spente.
Lo spettacolo, l’attività teatrale è andata avanti per fortuna. E così mi ritrovo a Rebibbia.
Cesare muore ogni volta. Cesare muore ogni volta che questi uomini lo mettono in scena, in effetti.
Il carcere per il tipo di esperienza che ho potuto maturare io in questi anni passati tra Rebibbia, Regina Coeli, e il nuovo complesso di Civitavecchia ha questo, innanzitutto, di rendere agnelli, dei lupi, credo.
Senza offesa, né per quelli che prima erano lupi, né per gli agnelli evidentemente. Mi ricordo che appena iniziai ad entrare a Rebibbia, uno di quelli più assidui nell’attività teatrale, un siciliano che stava scontando 25 anni per associazione mafiosa e non solo, mi mostrò la sua foto prima di entrare nel penitenziario: un lupo, davvero. Non che avesse il sangue che colava dalle gengive, questo no. La realtà è molto più drammatica. Gaetano, mi sembra si chiamasse così, aveva gli occhi iniettati di quel sangue che probabilmente aveva visto. Anni di carcere ma soprattutto l’incontro con il teatro, nella sua complessità, lo avevano davvero trasformato: quando lo incontrai io, era sulla strada per diventare un signore distinto, che si era iscritto all’università, lettere e filosofia, e cercava di ripensare alla sua vita, e a quando sarebbe uscito definitivamente. Oggi è in semilibertà e lavora presso una associazione che si occupa del reintegro sociale degli ex-detenuti. Devo subito sottolineare che in questo che sto per dire non c’è nulla di buonista:deriva dal quel po’ di esperienza maturata sul campo. Per campo intendo proprio un campo di calcio, quello della casa di reclusione di Rebibbia, esattamente, una decina di anni fa, circa, in cui facevamo le prove per uno spettacolo.
Ma procediamo con ordine. Ero andato a vedere con molta curiosità Cesare non deve morire, il film dei fratelli Taviani, piaciuto poco o tanto non è importante ora. Mi aveva colpito il fatto che, finalmente, due maestri del cinema italiano si fossero accorti di questa realtà importante del panorama culturale italiano: il teatro in carcere. La cultura, la cultura cinematografica finalmente usciva di nuovo fuori dai salotti borghesi, delle signore impellicciate e dei professori universitari e degli avvocati in preda a stravolgimenti psicologici e/o amorosi, e/o sessuali, per entrare (o uscire..) nelle carceri, nella vita vera, per strada.
Dopo aver visto il film, mi sono chiesto, come probabilmente hanno fatto molti, che cosa fosse accaduto a questi ragazzi. Sì, intanto va sottolineato, non sono bestie, sono ragazzi. Molti di loro, degli attori del film, e dello spettacolo di Cavalli, hanno la mia età o poco più. Dal mio punta di vista, non giudicante, ma non ho né gli strumenti né l’indole per giudicarli, hanno puntato tutto su un cavallo sbagliato. I modelli di riferimento sono sbagliati. I soldi (non facili, ma molti e immediati), una vita avventurosa e il rischio del potere possono mortificare gli animi di persone spiritualmente già formate: figuriamoci in chi ha avuto poca o quasi nessuna educazione. Anche solo per la sua attività formativa, il teatro, la scoperta del teatro, dai testi di Shakespeare all’agire stesso teatrale, ha una sua funzione determinante. Credo sia indiscutibile, ed è per questo che queste attività sono sempre più sostenute dal ministero di Giustizia, e andrebbero sostenute ancora di più se davvero si vuole ripensare a come recuperare queste persone. Certo è solo un punto di partenza, ma è già qualcosa.
Dopo il film, dicevo, la sensazione che avevo è che tutta l’esperienza legata alla realizzazione dell’opera dei Taviani fosse stata un passo decisivo al fine di un effettivo recupero di questi uomini: penso alla possibilità di andare prima a Berlino per la premiazione, poi vedersi riconosciuti, come attori protagonisti di un’opera d’arte, e poi correre il rischio di andare a Hollywood addirittura…
Una volta spenti i riflettori della ribalta, sono restati loro. Loro i Carmine gli Antonio i Gennaro i i Salvatore, loro e i loro corpi dietro le sbarre. E una vita/non vita reclusa e sottratta alle proprie famiglie.
Non sono nella condizione di esprimere un giudizio pro o contro il carcere a prescindere. Non ne ho l’intenzione. Credo che ci siano dei reati che debbano avere come deterrente la pena detentiva, non fosse che per quel rispetto e «sacralità» della vita umana che troppo spesso, in certi contesti, si perde di vista. Le carceri sono piene di mafiosi che ammazzano anche. È bene non dimenticarlo. Ma è bene anche non dimenticare chi dietro le sbarre poi continua a vivere. Credo che un’attività come quella teatrale abbia una funzione determinante per tentare, almeno, di migliorare quelle condizioni che altrimenti sarebbero impensabili. Tentare, cioè, quanto meno, di rendere quella vita meno abbandonata a se stessa, renderla partecipe e viva, per così dire.
Le persone, quei nomi e quei corpi a cui accennavo prima, non sempre si sono macchiate di reati orribili. Alcuni sì, altri no. Ed è giusto che la pena per questi reati sia commisurata al tipo di reato commesso. Sembra ovvio, ma ho imparato in carcere a non dare nulla per scontato. D’altra parte, l’art 27 della Costituzione Italiana recita così, al secondo comma : «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».
Quando ho pensato a questo pezzo, mi è subito venuto in mente che c’è una associazione di studiosi, magistrati e giornalisti che si occupa della situazione drammatica ed emergenziale delle carceri italiane, Antigone. Ecco, basta dare una rapida occhiata all’ultimo rapporto per capire che i trattamenti disumani a cui fa riferimento l’art. 27 della Costituzione spesso si realizzano anche e soprattutto in quello che è il problema principale ed iniziale della detenzione penitenziaria: il sovraffollamento. Può sembrare una sciocchezza, ma proviamo ad immaginare di vivere anche solo per un breve periodo durante la calura estiva qui a Roma, ad agosto, in un piccolo spazio angusto (la cella) e di dividerla con otto persone quando obiettivamente lo spazio a disposizione potrebbe bastare o andare bene al massimo per quattro. Questo per aver un’idea, vaga, di cosa significhi la parola sovraffollamento.
A leggere il rapporto di Antigone, disponibile anche sul web, è imbarazzante sapere di vivere in un Paese dove in alcune regioni, come la Campania ad esempio, il livello che si è raggiunto, ha superato addirittura il massimo consentito di sopportazione: il doppio, o quasi il doppio, di quanti detenuti un istituto di pena potrebbe sopportare. Bene, anzi male. Non è possibile esaurire tutta la faccenda legata al carcere in un articolo che voleva essere su un pezzo teatrale, evidentemente. Però in questo caso, gli ambiti sono difficilmente scindibili. Gli articoli della Costituzione sulla integrità fisica sulla dignità il rispetto per la persona umana, la Dichiarazione umana dei diritti dell’uomo, i regolamenti interni e le direttive ministeriali sono i riferimenti normativi per ciò che concerne gli istituti di pena e i suoi regolamenti.
Il carcere è un posto tremendo. Leggevo qualche tempo fa una recensione di Adriano Sofri, esperto in faccende carcerarie come egli stesso si definisce con l’ironia che lo contraddistingue, su un libro che parla delle storie dei bambini figli di detenute, che possono restare con le madri solo fino ai tre anni. Poi a tre anni vengono separati: ecco il carcere è anche questo. Carcere intanto e innanzitutto è sinonimo di separazione, distacco. Anni fa, quando tentavo di fare l’attore, per poi ritrovarmi a giocare (play/spielen) a teatro a Rebibbia, incontrai uno che si era aggregato da poco, un signore sulla cinquantina, scuro, del Sud. Non aveva molti anni di pena da scontare, ed era un uomo con un forte senso di giustizia e dignità. Un giorno, eravamo a Maggio, a fine Giugno saremmo andati in scena con uno spettacolo sui pirati, la primavera iniziava a farsi sentire anche dentro il carcere: il caldo il cielo azzurro e l’odore dei fiori arrivava fin dentro il cortile dove si svolgevano le prove. Gennaro, chiamiamolo così, mi chiese cosa succedeva fuori, come si stava. Io lo guardai un po’ interdetto, sorpreso. E non seppi cosa rispondere. Non capivo a cosa si riferisse. Ero molto giovane e solo con il tempo ho acquisito una certa disinvoltura a muovermi in un ambiente, a cui, per diversi motivi, ero estraneo.«…‘e femm’n for’… comm’ so’?» (come sono le ragazze fuori?). Ecco questa domanda, immediata e diretta, mi fece rendere conto dell’esclusione che è costretta a vivere una persona reclusa. Da quel giorno diventammo amici: io gli raccontavo di incontri più o meno veri che mi accadevano fuori, e lui si giovava dei miei racconti.
L’attività svolta da Fabio Cavalli e da pochi altri registi di teatro dunque si inserisce proprio in questa discrepanza, diciamo: il teatro assume la funzione di ri-educazione dei detenuti. È questa l’intenzione, il telos, dei progetti che vengono realizzati negli istituti di pena.La ministra Cancellieri, presente allo spettacolo «Giulio Cesare», ha promesso appunto, che questo tipo di attività saranno sempre più assistite (finanziate?) dal ministero.
«Una promessa, strappiamogli una promessa» ho sentito urlare sottovoce Gerardo alla fine dello spettacolo, mentre tutti le si facevano intorno. Mi sono chiesto di che promessa stessero cianciando. Ma una promessa è pur sempre una promessa, e magari è la promessa davvero di far sì che questo tipo di attività davvero vadano avanti.
È indiscutibile infatti che il teatro, per il suo essere stesso, sia la migliore attività realizzabile in situazioni di disagio. Proprio per il suo essere in sé socializzante è terapeutico. Tocca immaginare, fare uno sforzo di fantasia su ciò che accadedentro: i detenuti, che spesso nell’ora d’aria impiegano il loro tempo in attività solitarie, un po’ di sport, una passeggiata in cortile, il caffè con gli altri, tramite il teatro riescono a relazionarsi diversamente tra di loro, giocano e si ri-mettono in discussione. Profondamente.
Terapeutico anche perché nel leggere, nell’interpretare, e nel raccontare di omicidi e di amori e di tradimenti e di confessioni e di dignità e di orgoglio, di uomini e di donne, dicono attraverso le parole di Giulio Cesare o Otello oppure Macbeth, di loro stessi: affrontano quelle profondità dello spirito che solo un’opera d’arte può farti affrontare: trovarsi a nudo di fronte a se stessi. Il tempo di certo non manca.Quando misi per la prima volta piede dentro Rebibbia, a fare l’attore-aiuto regista-tuttofare in un’altra compagnia che lavorava con i detenuti, mi colpì l’ironia che si cela anche in situazioni così drammatiche (è bene ribadirlo: drammatiche, in carcere e di carcere si muore. Di disperazione, solitudine, dramma): compagnia stabile assai, questo era il nome della compagnia scelto dai detenuti insieme agli educatori.
Foucault nel suo Sorvegliare e punire inizia parlando della drammatica situazione dei detenuti all’inizio del XVIII secolo. Oggi, fortunatamente, siamo ad uno stadio della società per alcuni aspetti più evoluto e più consapevole della situazione detentiva: la pena di morte è bandita, tanto per dirne una, e si tenta forse davvero quel processo rieducativo difficile ma non impossibile. Processo che passa appunto anche questo tipo di esperienza. Anzi, che forse si fortifica e accelera qualche volta anche e soprattutto grazie a questo tipo di attività e al teatro. Ma non è mai abbastanza. Un signore del Sud, uno dei tanti del Sud che affollano le carceri, tanti anni fa durante le prove per la realizzazione di una messa in scena di uno spettacolo sul brigante Carmine Crocco, come dimostrazione di coraggio, dignità e orgoglio, mi citò l’orazione funebre del Giulio Cesare di Shakespeare. Sì, il teatro, credo, può fare davvero molto. Il teatro che è anche l’occasione di incontro e scambio: io gli risposi con la stessa orazione recitata dall’immortale Vittorio Gassman ne Il Mattatore, tra l’altro proprio in un carcere, davanti e con altri detenuti, detenuto egli stesso.
Credo di aver imparato molto da questo tipo di esperienza. Ed ho provato a portare in cambio la mia, di esperienza. Il teatro fuori dai luoghi soliti del teatro è oramai un’esperienza che si è consolidata negli ultimi 40/50 anni. Gli anni della contestazione hanno portato anche questo di buono: rompere con il teatro borghese, ingessato declamato, rap-presentato per e dalla borghesia. Rap-presentare in tedesco, nel tedesco filosofico, si dice vor-stellen, mettere-davanti-a-qualcuno-qualcosa. Il teatro non è maimera rappresentazione, né tantomeno un assistere passivo di fronte a qualcosa. Tutt’altro. È passione e coinvolgimento.
L’esperienza del Living di Julian Beck e Judith Malina forse è stata la prima esperienza che ha provato a portare il teatro fuori dal teatro, (Off Broadway prima che diventasse un brand era una scuola una prova una performance del teatro che si pensava fuori da Broadway: appunto Off), nelle carceri, nei manicomi. In Italia una delle esperienza più importanti è stata quella di Leo de Bernardinis e Perla Peragallo, ad esempio,a Scampia, periferia del napoletano, quando, siamo negli anni ’70, quella periferia era davvero un luogo inaccessibile e impossibile da vivere. E i Saviano ancora non erano nati. Nessuno ne parlava. Al cinema forse Pasolini è stato il precursore nella realizzazione di opere d’arte, realizzate in maniera estrema: film girati con attori non professionisti, e trovati in quella parte della città che Roma ancora non era: una città in trasformazione, in un non già e non ancora, al tempo stesso. Va riconosciuto che Pasolini, al di fuori, al di là, direi, della cultura dei salotti buoni e della buona borghesia romana, sia stati uno dei pochi che abbia tentato davvero di raccontare questa trasformazione in atto a Roma, attraverso la gente che in quelle borgate viveva. Ma pochi hanno tale intensità e profondità di spirito.
In Italia oggi, non sono molte le compagnie che svolgono questo tipo di attività con i detenuti. A parte quest’ottimo lavoro svolto da Fabio Cavalli e Daniela Marazita presso il Nuovo Complesso di Rebibbia a Roma, c’è l’esperienza della Compagnia della Fortezza, che, presso il carcere di Volterra in Toscana, sotto la guida sapiente e costante di Armando Punzo porta avanti ormai da anni un percorso di crescita e formazione di attori detenuti.
Infine c’è lo spettacolo da cui sono partito: a Rebibbia a seguire il regista e i suoi venticinque attori nella messa in scena del Giulio Cesare. Poche parole per dire che lì dove davvero sembra che si perdano e che si siano perse tutte le speranze, si vive in maniera più drammatica e al tempo stesso più straniante la messa in scena dell’opera di Shakespeare. Giustizia e vendetta e lealtà e onore e tradimento e libertà e omicidio sono parole che dette da chi davvero li vive e li ha vissuti sulla propria pelle, sul proprio corpo, ti colpiscono più profondamente, più intensamente.
L’effetto è straniante nel senso brechtiano, ovvero vedere un uomo che finge di ammazzare qualcuno quando qualcuno lo ha ucciso davvero, crea una certa confusione. Come quando Shakespeare faceva recitare parti di donne che si travestivano da uomini, da attori maschi, lo stesso.
Ma questa è la magia e il mistero del teatro. Oltre al regista e ai suoi collaboratori esterni i ringraziamenti e i complimenti davvero sentiti per quello che danno in scena, come attori e come persone, va a tutti i reclusi della Sezione Alta Sicurezza che hanno accettato questa ennesima sfida con se stessi e hanno provato e stanno provando a rimettersi in discussione, per tentare un nuovo inizio.
Giovanni, Antonio, Vittorio, Gerardo, Giancarlo, Gennaro, Roberto, Umberto, Angelo, Antonio…. sono solo alcuni dei nomi di questi uomini, per certi aspetti straordinari.
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