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Scuole d’arte per rifare la rivoluzione a Cuba

Scuole d’arte per rifare la rivoluzione a CubaL'ingresso della Scuola di arte plastica – Alberto Reyes per il libro "Cuba, Scuole Nazionali d'Arte" (Skira)

Architettura Bellezza per tutti e creatività senza limiti nella lussureggiante natura tropicale. La straordinaria esperienza iniziata nel 1961 con la trasformazione dell’esclusivo Country Club nel più importante centro di alta formazione (gratuito) del Latinoamerica. Un sogno incompiuto. O quasi

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 17 maggio 2014

Alcune celebri foto di Korda mostrano Fidel Castro e Che Guevara, entrambi in (divisa) verde olivo, impegnati in una partita di golf. Nei loro sguardi si legge l’ironia, quasi l’ilarità della situazione: due guerriglieri barbuti e vittoriosi nel greeen dove fino a un paio di anni prima si rilassavano solo i membri delle più facoltose famiglie cubane assieme a ricchissimi stranieri e, magari, a noti esponenti della mafia nordamericana. La location delle foto era infatti il Country Club, il circolo più esclusivo dell’Avana, dove nemmeno il presidente Fulgencio Batista era ammesso, perché mulatto. Quel volto butterato del dittatore, così ordinariamente cubano, e la sua propensione alla violenza e alla tortura apprezzate a livello politico dagli yankees, stonavano in quella specie di paradiso terrestre.

Era il 1961, Fidel e il Che intendevano dimostrare che la Rivoluzione si impossessava anche dell’esclusivo club circondato da una lussureggiante vegetazione tropicale. Per trasformarlo, da luogo di privilegiati nel più importante centro culturale dell’America latina, dove migliaia di studenti del terzo mondo, latinoamericani, africani, asiatici, gratuitamente avrebbero potuto trasformarsi in artisti. Il Country Club, decise Fidel, sarebbe stato nazionalizzato per ospitare «le più belle scuole d’arte».

Nessun vincolo estetico

Il compito di realizzare il progetto fu affidato a tre architetti, Ricardo Porro, Vittorio Garatti, Roberto Gottardi, il primo cubano, gli altri due italiani, tutti poco più che trentenni, convinti sostenitori della rivoluzione cubana. Non fu posto loro alcun vincolo estetico, nessuna commissione che esaminasse i progetti e mettesse l’imprimatur, nemmeno un limite alle spese. Unica condizione, i tre architetti dovevano utilizzare i mezzi e i materiali che Cuba metteva a disposizione, perché non si poteva sprecare denaro per importarne. Una sfida da far tremare i polsi ad architetti con grande esperienza, scuole bellissime, autarchiche e da realizzarsi in tempi veloci perché la rivoluzione aveva fretta, aveva appena sconfitto il tentativo di invasione nella Baia dei porci progettato dalla Cia e doveva mostrare subito al mondo i risultati, politici (campagna di alfabetismo, riforma agraria) e cultural-sociali.

plastico

Così, ha inizio un’esperienza straordinaria, probabilmente senza precedenti, in totale assonanza con una rivoluzione che proclamava possibile l’utopia di una nuova società – e dell’uomo nuovo – grazie a un volontarismo che fondeva progetto e pratica. Lo stesso accadde nei cantieri del Country Club. Come racconta Gottardi, i canoni classici vennero totalmente sconvolti, non vi fu un progetto completato e presentato a una commissione designata per approvarlo o meno, e le opere non furono completate prima di essere utilizzate. «Tutto avvenne in contemporanea», afferma l’architetto. In un’esplosione, certo un poco caotica, di creatività. Gli architetti iniziarono i lavori subito dopo aver messo a punto poche piante delle scuole; di notte disegnavano, il giorno costruivano e intanto gli studenti, che abitavano e studiavano nelle case adiacenti ai cantieri – abbandonate dagli ex membri del club, fuggiti all’indomani del trionfo della rivoluzione – contribuivano alla costruzione con il lavoro volontario. «Anch’io, come gli altri due architetti, vivevo nel club, la mattina mi presentavo al cantiere con un plastico spiegavo agli operai e agli studenti le scelte architettoniche e ci mettevamo al lavoro».

Nascono così le cinque scuole, Teatro, Musica, Danza moderna e Danza classica, Arti plastiche. Ogni architetto ci mette di suo, dei suoi studi, delle sue esperienze precedentie del suo rapporto con Cuba e la sua cultura. Grande collante, è l’idea di inserire le scuole nella natura, tropicale, profumata e avvolgente. E l’uso del latterizio come componente fondamentale. Le carenze, poco cemento e poco ferro a disposizione – nel 1962 inizia l’embargo unilaterale contro Cuba decretato dagli Usa e tuttora in vigore, nonostante Obama – incitano a idee nuove. La volta catalana – quella utilizzata da Gaudí a Barcellona- viene scelta come soluzione per illuminare grandi spazi limitando l’uso di cemento armato. Gottardi provvisoriamente utilizza il mattone anche per i sedili delle sue aule (anche se il progetto finale prevede soluzioni «più comode»). Il colore caldo del latterizio, le curve delle volte catalane, la sinuosità delle costruzioni che entrano e avvolgono piante e alberi (Garatti), la sensualità che viene dalla compoente negra dell’ajaco cubano (Porro), le aule aggruppate in una collinetta, ognuna col suo tetto, convergenti verso il basso dove il teatro multifunzionale attende gli allievi (Gottardi) creano un complesso unico.

Particolare dello scolo delle acque (Sudio garatti)
Particolare dello scolo delle acque (Sudio garatti)

Un libro sull’avventura

Alla straordinaria avventura dei tre architetti è dedicato il libro Cuba, scuole nazionali d’arte, edito da Skira e curato da Claudio Machetti, Gianluca Mengozzi e Luca Spitoni, presentato alla 23ma Fiera del libro dell’Avana. Un volume che raccoglie le interviste dei tre architetti assieme a interventi di politici, architetti, intellettuali e artisti cubani e fornito di una ampia documentazione fotografica e grafica, oltre a un cd realizzato dal regista Francesco Apolloni e titolato Un sueño a mitad.

A metà, secondo il regista, perché nel 1965 i cantieri vengono praticamentte congelati, quando solo la Scuola d’arte plastica e quella di Danza moderna sono praticamente concluse, le altre solo in parte costruite. La rivoluzione ha altre priorità, la crisi dei missili del 1962 –quando venne sfiorata una nuova guerra mondiale- aveva consegnato Cuba al realismo socialista, alimentato dall’abbraccio dell’Unione sovietica. La bellezza lascia il posto all’architettura di massa – case popolari per centinaia di migliaia di cubani e non solo, vi saranno da ospitare anche le migliaia di esuli che fuggono le dittature dei vari Pinochet e Videla – la creatività viene sostituita dalle costruzioni a moduli importate dall’Urss. Quei palazzoni in cemento, tutti uguali, di cinque piani – il massimo di altezza senza ascensore – che a Mosca vengono chiamate krusciovke, dal nome del segretario generale del partito comunista sovietico Nikita Krusciov che incrementò l’edilizia popolare sovietica (lo stesso che trattò il ritiro dei missili made in Urss da Cuba) vengono disseminati nell’isola. E i cubani le definiscono «zuppa di blocchi».

La rivoluzione si doveva difendere, i cubani dovevano avere case, scuole in ogni paese, anche il più sperduto, policlinici e ospedali. Le “priorità” erano concrete. Probabilmente adottate a malincuore, come misura necessaria alla sopravvivenza, dal vertice politico. Ma come accadde anche nell’Urss, quando la Grande utopia dei Tatlin, Malevic, Rodcenko, Papova fu prima marginalizzata, poi duramente repressa da Stalin e infine, con i burocrati di Brezvev, sostituita dalla soz-art, dal realismo socialista, anche a Cuba i tre architetti furono accusati di individualismo, elitismo e altri ismi. Il periodo della creatività sembrava se non concluso, almeno congelato. A livello nazionale si imposero «le normative tendenti alla standardizzazione su scala nazionale», sostiene (nel suo intervento nel libro) l’architetto Mario Coyula e «l’autorità dell’architetto passò dal progettista ai costruttori investitori». Le Scuole d’arte (Ena) continuarono a essere utilizzate, eccetto quella di Balletto classico e musica, così com’erano. Anzi, negli anni ’70 furono promosse a università, Istituto superiore d’arte, Isa. Ma quelle scuole non concluse furono non solo lasciate in balia del tempo e della natura, ma anche oggetto di veri e propri vandalismi e saccheggi.

Solo nel 2000, dopo l’implosione dell’Urss e la caduta di tutti i socialismi reali dell’Est europeo e dopo che, contraddicendo tutte le previsioni, Cuba era riuscita a sopravvivere mantenendosi socialista e indipendente, Fidel decise che doveva essere ripreso e concluso il progetto delle Scuole d’arte. Anche queste, nelle intenzioni del leader maximo, facevano parte dell’utopia fondativa della rivoluzione cubana. Il sogno, quello della rivoluzione che produce anche bellezza oltre che cultura «per gli umili» e non solo per i ricchi e il consumo, quel sogno doveva essere ripreso. I tre architetti vennero richiamati per concludere i lavori delle scuole che per quarant’anni erano rimaste inconcluse. Ma la realtà aveva fortemente corroso, assieme all’utopia, anche i suoi prodotti. «L’opera di ricostruzione, più che di completamento esigeva sfide e risorse troppo grandi: recupero dei materiali originari di costruzione, sostituiti da quelli utilizzati dalla moderna tecnologia industriale, sistemare il fiume Quibù che attraversa il terreno delle scuole, spesso inondandolo»; «Oltre al restauro della Scuola di arte plastica implicava concludere quella di teatro, recuperare quella di danza e salvare il mai utilizzato lombrico della scuola di musica».

Un anno prima il World Monuments Fund aveva inserito le scuole d’arte dell’Isa nell’elenco dei cento monumenti del mondo da salvare. L’unico i cui architetti fossero ancora in vita. I finanziamenti per un restauro ed eventuale completamento parevano a portata di mano. I tre architetti si misero di nuovo al lavoro per completare le scuole con nuovi progetti. Ma nel 2001 il presidente George Bush (figlio) aveva inasprito le sanzioni contro Cuba bloccando ogni invio di fondi. E le risorse del governo cubano non lasciavano molte speranze: nel 2008 è stato completato il restauro della Scuola d’arte plastica, nel 2009, dopo che due cicloni avevano devastato l’isola, il governo blocca i fondi che non siano destinati a abitazioni.

Una ferita ancora aperta

Se un sogno lasciato a metà può causare malessere e tristezza o rimpianti, l’utopia non ammette frazioni. Per questa ragione l’incompletezza delle Scuole d’arte è una ferita ancora aperta. Ancor oggi l’Isa vive in una sorta di limbo nel quartiere residenziale di Cubanacan utilizzando sia le due scuole ristrutturate, sia le due incomplete (quella di balletto è inutilizzata e conosciuta come «le rovine») più una serie di servizi. Per poterla visitare è necessario uno speciale permesso. Il libro voluto dall’Arci, Cuba, Scuole nazionali d’arte, è stato presentato alla Fiera del libro, ma non ne è stata (ancora) permessa la vendita.

Nel contempo, però,viene tributato un rinnovato omaggio agli architetti – il 7 marzo è stata inaugurata all’Avana una mostra dei lavori di Vittorio Garatti – e si spera che, magari con contributi europei o italiani (due anni fa Garatti e Gottardi sono stati decorati dal presidente Giorgio Napolitano con l’Ordine al merito della Repubblica d’Italia) i due architetti possano completare le loro scuole in base ai nuovi progetti, che continuano ad attualizzare. Per loro infatti il sogno delle scuole non è rimasto a metà. «Più che la compiutezza delle opere, importa che l’Istituto superiore d’arte abbia svolto e continui a svolgere la sua funzione, ovvero “produrre” arte, formare, pittori, scultori, attori, ballerini, con un insegnamento gratuito e di qualità», sostiene Garatti.

La Scuola di Danza Classica vista dall'alto (Studio Garatti)
La Scuola di Danza Classica vista dall’alto (Studio Garatti)

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