Mentre la pandemia destinava ragazze e ragazzi all’invisibilità delle proprie case, Gaja Cenciarelli – traduttrice, scrittrice, docente di lingua e letteratura inglese – avviava un movimento inverso di emersione dei suoi studenti di un istituto di periferia, dando a ciascuna e a ciascuno un nome e una storia pubbliche (Domani interrogo, Marsilio, pp. 226, euro 17),

MOLTI HANNO già scritto sul suo libro e sui modi in cui le parti in gioco si disvelano nello sguardo dell’altro da sé. Ma qui vogliamo guardare a quella prima inter pares che sbeffeggia la nostra assenza di relazione accogliendo nel suo universo parallelo le protagoniste/i e le parole «capaci di raccontare l’altro», più di quanto non capiti altrove: la scuola. È lì, nel movimento di attraversamento di quel luogo comune delle vite bambine che si fanno adulte, che ci troviamo in quella terra di mezzo dove è data la possibilità di «reinventarsi» (bell hooks) e di immaginare l’inedito (Maurizio A. Iacono).

È UNA SCUOLA-MONDO che disvela quanto ciò che avviene sia in continuità con gli accadimenti di un «esterno» ostinato a non voler essere ridotto a periferia, la comunità immaginata e agita dall’autrice. È, infatti, costituente di futuro grazie anche al quartiere – l’area romana di Rebibbia -, alle strade che la circondano, alla «zona franca» del bar.
Ha ragione la professoressa ad avere paura davanti «a quel portone» che ci siamo chiusi alle spalle in tanti fin troppo in fretta.

Raramente esiste, oggi, avamposto più imprevedibile della scuola: il mondo che sarà è già lì in una dimensione pulsante di vite – 8,5 milioni di ragazze/i e un milione di docenti e addetti -, che da teatro di cittadinanza si è fatta periferia dell’agire politico. Teme l’abitudine che trasforma il male in normalità la professoressa, nella «sua» scuola il buono e il cattivo non sono mai troppo distinti, ma è imparando a nominare quel mondo che riesce a «vedere solo loro».

ESSERE NOMINATI, per le/gli studenti che hanno paura di rimanere sbagliati è la crepa in cui insinuarsi per misurare le possibilità extra-ordinarie del diventare finalmente adulti. E proprio là dove vive la relazione, l’autrice-docente li raggiungerà, superando gli ostacoli che dissemineranno sul suo percorso.

L’Italia è uno dei quattro paesi più anziani sul pianeta, una società che ha deprivato la scuola di risorse vitali, dandone la responsabilità ai soggetti che la abitano, invece di farne un bene comune. La professoressa questo lo sa e racconta le tante vite della «sua» quinta. Ci troviamo situate/i così su temporalità differenti in cui il «posizionamento generazionale» è assunto come uno degli indicatori di rotta: anche noi ex ragazzi siamo stati impegnati «nell’ostinata creazione dell’errore». Grazie a questa narrazione possiamo alzare lo sguardo su quel campo largo; tuttavia la scuola rimane il nodo dell’idea che abbiamo di società e mi sembra che tutta quella soggettività stenti ancora a farsi sistema.

Quello tra generazioni, dunque, è un rapporto obiettivamente in crisi, da rimettere nella giusta prospettiva e credo che l’autrice sia riuscita, intervenendo su quel comportamento simbolico di cui si nutre l’apprendimento, a scambiare «dei prestiti di esperienze come snodi di relazioni che possano tessere reti tra età e tra nature diverse» (Luisa Passerini). A dimostrazione ennesima che le menti si sviluppano nei corpi ed essi nei luoghi e nel tempo in cui sono, facendo dello spazio stesso, unito all’amore, il denominatore di senso del nostro essere nel mondo.

NELLA NARRAZIONE, devianze, paure e sogni, non fanno sconti alle fragilità delle relazioni, alle difficoltà del ruolo, alle debolezze del sistema-scuola: è un «flusso ininterrotto di attenzioni» talmente generativo che dovrebbe abitarla sempre la scuola. Lo spazio così nominato, insieme ai rapporti che riesce a contenere in particolare durante l’adolescenza, diventa soggetto che permette quella conta dei salvati, scandita dall’autrice dall’inizio della storia.

È una generazione fragile e solitaria che soffre di attacchi di panico, quella che ci consegna Gaja Cenciarelli in questo libro. Eppure proprio in quel: «Tranquilla pressore’…salvarci da cosa?» si può leggere anche la responsabilità che si assumono di fare dell’apprendimento un atto controegemonico di resistenza in storie che hanno le loro «imprevedibili svolte».