Scrivo da Miami, teatro di Cuba
Il Saggiatore ripropone due documenti della scrittrice californiana: il privato «Anno del pensiero magico», 2005, e «Miami», 1987, cronaca New Journalism del 24° anniversario della Baia dei Porci. In comune la «grammatica»
Il Saggiatore ripropone due documenti della scrittrice californiana: il privato «Anno del pensiero magico», 2005, e «Miami», 1987, cronaca New Journalism del 24° anniversario della Baia dei Porci. In comune la «grammatica»
Dopo aver avviato con cinque titoli di pregio, tra cui l’ultimo, Blue Nights (2011), il progetto di recupero del non esile canone narrativo e saggistico di Joan Didion, a dieci anni di distanza il Saggiatore ripropone due delle poche opere della scrittrice californiana apparse in italiano nel passato: Miami del 1987, ritradotto da Teresa Martini (pp. 263, € 20,00) e L’anno del pensiero magico del 2005 (traduzione di Vincenzo Mantovani, pp. 236, € 18,00). Si tratta di interventi nella vena cronachistica ma molto diversi tra loro. Il primo è un ritratto dal vero, e storicamente ben informato, dell’altra Miami, quella meno esposta dei Cubani esuli dalla patria alla quale allora, nell’87, si volgeva, oltre l’oceano, il loro sguardo accorato. È un pezzo esemplare di New Journalism, da militante della cronaca, come sa essere Didion; un capitolo di storia socio-politica, oggi miliare, dopo quanto accaduto negli ultimi mesi. L’altro, di quasi vent’anni dopo, vincitore del National Book Award, è invece un lungo monologo sul riscatto dal «dolore» («Il dolore risulta essere un posto che nessuno conosce finché non ci si arriva»), l’elaborazione del lutto, una registrazione tutta intima, anche se non estranea al peso degli accadimenti pubblici.
In comune questi due documenti su storia privata e storia comunitaria hanno la distinzione della scrittura di Didion, da lei curata con mania hemingwayana: «La grammatica – ha dichiarato – ha un potere infinito»; alterare il suo equilibrio o la giusta collocazione delle parole nella frase è come alterare la posizione dell’occhio fotografico sull’oggetto che si intende riprendere. Qualcos’altro viene fuori, non ciò che si vuole, o piuttosto ciò che è o ciò che si vede, se si parla di scrittura giornalistica. Didion si è educata sull’idea «che il significato stesso fosse insito nel ritmo delle parole, delle frasi e dei paragrafi, una tecnica per nascondere quello che pensavo o che credevo, qualunque cosa fosse, sotto una vernice sempre più impenetrabile. Io sono, o sono diventata, il mio modo di scrivere». Dunque, per lei la scrittura è sempre un esercizio egocentrico che, tuttavia, fa da distaccato e imparziale «riflettore» ideologico e morale alla Henry James. Un compito non alla portata di tutti.
Non è tuttavia alla luce di questo risvolto che va posto L’anno del pensiero magico, in cui l’io che scrive si abbandona a sbalzi emotivi che non lasciano spazio al distacco. «Questo è un caso – Didion afferma – in cui per trovare il significato mi serve qualcosa di più delle parole». Tale impasse si creò quando, la sera del 30 dicembre 2003, lasciata la figlia Quintana in ospedale per cure di routine, e seduti a cena, il marito – lo scrittore e sceneggiatore John Gregory Dunne – smette di parlare, si affloscia sulla sedia e poi cade inerte sul pavimento. Un’incredibile irruzione della morte in casa, in circostanze assolutamente normali: «La vita cambia in fretta. / La vita cambia in un istante. / Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita. (…) La vita cambia in un istante: / Un normale istante». Così inizia L’anno del pensiero magico (il refrain ritorna più volte), centrando il fuoco sul sovvertimento di una normalità in cui si deposita l’inaccettabilità dell’evento, e la sua soppressione, quando gli occhi di chi resta, dopo che tutto è finito, cadono su un banale accappatoio o su un paio di scarpe che attendono di essere indossati da qualcuno che, prima o poi – è certo! – tornerà a reclamarli; quando, nelle retrovie della coscienza, si instaura il rifiuto dell’«è finita».
Si potrebbe facilmente ricorrere all’analisi di Lutto e melanconia, cosa che Didion fa e poi abbandona. E quindi, nonostante l’appello a altre indagini sul lutto e al potere confortante della poesia (Hopkins, Cummings, Arnold, Auden, Lawrence), questo intimo reportage si sviluppa, nella sostanza, in uno studio del «pensiero magico», come individuato dall’antropologia classica e come esperito da Didion: un influire sulla realtà con attese personali, un’elaborazione cognitiva della realtà disancorata dalla causalità, un vivere in una immaginaria normalità la vita che continua a scorrere nel giro di un anno, un anno in cui «non c’era nulla di normale». «‘Farlo tornare indietro’: questo era stato in quei mesi il mio scopo segreto, un trucco magico», ammette Didion. Una fantasmagoria pericolosa, se non si perviene infine, ragionatamente, alla «guarigione» e al ripiego su una scrittura catartica. L’anno del pensiero magico è uno studio sull’innaturalità del morire. E, nel fondo, una rilettura personale di Alcesti, una discesa da cui, se si ritorna, si torna senza parole. È anche un libro-collage di frammenti da variegate fonti, che pare proporsi a modello terapeutico convergente su: «So perché ci sforziamo di impedire ai morti di morire». È per «tenerli con noi. So anche che, se dobbiamo continuare a vivere, viene il momento in cui dobbiamo abbandonarli, lasciarli andare, tenerli così come sono, morti».
Tutt’altro volto di Didion si affaccia da Miami. Qui è la professionista distaccata che parla, coperta di «vernici» ma con qualche punta freddamente ironica che affiora. Affiora, almeno, nel cimitero di Miami, perché – così inizia la cronaca di Miami –, «Le vanità dell’Avana vanno a morire a Miami». E allora, tanto per ricostruire un prologo, vale la pena posare uno sguardo sparso qui e là nel cimitero di Woodlawn Park, che si fa pre-testo storico molto interessante, se si vanno a leggere nomi e date su cappelle, monumenti, lapidi. Si troveranno lì (assieme a altri), nella pace e nella lucha (lotta) eterne: il presidente cubano Gerardo Machado (1871-1935) e il presidente Carlos Prìo Socarràs (1903-1977), che aveva contribuito alla cacciata di Machado. Batista, invece, non c’è, perché finì nella Repubblica Dominicana ma non mancò di soggiornare anche lui a Miami dal ’44 al ’52, quando rovesciò Prìo dalla presidenza di Cuba. Il poeta José Martí, leader indipendentista dalla Spagna, fu esule a Key West (Miami), prima di sbarcare nel 1895 con un reparto di ribelli a Cuba dove restò ucciso. Anche l’esule Fidel Castro Ruz giunse a Miami nel 1955 in cerca di soldi per eliminare Batista. Insomma, tra sguardi al presente e al passato, Miami racconta una movimentata storia di rapporti Miami-Cuba – un intreccio di spodestamenti, fughe, attese, esili – durata sessant’anni. «Molti degli epiloghi di L’Avana – commenta Didion – così come più di un prologo, hanno come teatro Miami».
Ed è per questo che, ancora nel 1987, per i Cubani di Miami, Cuba, oltre che luogo di nascita, è un «concetto», un concetto che, più che nostalgia, implica una perdurante lucha. Didion ci arriva il 17 aprile 1985 per osservare il quartiere cubano nel ventiquattresimo anniversario della fallita invasione della Baia dei Porci (un’eredità scomoda lasciata a Kennedy da Eisenhower), un rituale ripetuto con passione, anche in ragione di quello che era inteso ormai come l’«abbandono» del loro progetto irredentista, il «tradimento», da parte degli Stati Uniti. «A mezzanotte e un minuto della mattina dell’anniversario del 1985 – registra Didion –, come di consueto in questa occasione, circa trenta membri della Brigata 2506, quasi tutti uomini tra i quaranta e i cinquant’anni veterani dell’invasione, si erano dati appuntamento al Monumento dei Martiri di Girón sull’Ottava Strada sudovest di Miami vestiti in tuta mimetica e armati di fucili AR-15, e avevano predisposto un servizio di scorta alla bandiera per montare di guardia nella tiepida notte della Florida. Era stata diffusa una registrazione di Star Spangled Banner e dell’inno nazionale cubano, La Bayamesa. ‘No temáis la muerte gloriosa’, recita La Bayamesa, perfettamente a tono con l’atmosfera di nazionalismo trascendente dell’occasione (…). Nella tarda mattinata la polizia aveva fatto cordone intorno ai fatiscenti bungalow sulla Nona Strada sudovest che ospitava la casa, il museo e la biblioteca della Brigata 2506 dell’Esilio Cubano, dove veniva conservata una reliquia sacra come le schegge della Croce di Cristo, quella bandiera che fu poi consegnata a John F. Kennedy all’Orange Bowl venti mesi dopo la Baia dei Porci. Portandosela a Washington, Kennedy promise di restituirla alla Brigata in ‘un’Avana liberata’, ma in realtà riuscì solo a accrescerne enormemente il valore simbolico, facendola poi esporre in questo edificio di Miami». Molto di più c’è in questo reportage da Miami, tutto da leggere, un reportage che ai nostri giorni rinnova la sua freschezza con il, come promesso, destino felice per quella bandiera simbolica, realizzato, anche grazie all’eredità kennedyana, da Obama.
I consigli di mema
Gli articoli dall'Archivio per approfondire questo argomento