Scritti sull’arte
Saggi Pubblichiamo due estratti dal libro "Pensare al non vedere", sull'idea di tratto e a proposito del lavoro dell'artista Jean-Michel Atlan
Saggi Pubblichiamo due estratti dal libro "Pensare al non vedere", sull'idea di tratto e a proposito del lavoro dell'artista Jean-Michel Atlan
Non dovrei solamente fare come se il nome di Atlan fosse scomparso, dimenticato, inghiottito, annegato sotto Atlantide. Ma come se le opere del suddetto Atlan avessero perduto il loro titolo. Il loro nome proprio e il nome del loro creatore. Come se, alla lettera, non mi dicessero niente. Come se, piuttosto, non mi autorizzassero a nulla, come se non mi concedessero in ogni caso l’autorità di non dirne nulla. D’altronde, come descriverle? Mi si permetta qui di risparmiarmi una lunga dissertazione teorica, ma ironica, sulla descrizione di un quadro. Quando penso che alcuni osano o pretendono di farlo, descrivere, abbozzare la minima descrizione di un quadro! Èsempre impossibile, dovrebbe essere vietato descrivere un quadro, «constatarlo», se non ordinando: andate ad ascoltare questo quadro che non è più un quadro, che non ha più la stabilità placata di un quadro, sentite il suo incantesimo, la sua preghiera, le sue ingiunzioni o i suoi comandamenti (tale quadro imperioso somiglia talvolta a una tavola dei comandamenti), vibrate alla vibrazione del suo grido, e poi andate a vedere, se potete, quelle linee, quei tratti, quelle bande, quei nodi, quei passi di danza. Inoltre, come descrivere, e come nominare, un colore? Come farlo senza figura, senza svolta tropica, ma alla lettera, letteralmente? Per esempio il suo «nero» che non è nero, che è nero al di là di ogni nero conosciuto? Da un individuo all’altro, da una cultura all’altra, come intendersi per identificare e soprattutto per chiamare i colori, per stabilizzare e codificare i nomi dei colori, in particolare nella Bibbia? Come insegnare i nomi dei colori a un cieco dalla nascita dopo l’operazione che gli rende la vista? Mi trovo qui, con Atlan, mutatis mutandis, io, come un cieco operato, di fronte alla stessa impossibilità di dire nel momento di recuperare la vista davanti a uno spettacolo inaudito. Come se, dunque, le opere del suddetto Atlan non portassero mai un titolo. Alcune tele di «grande formato» si concedono, certo, il «senza titolo» come titolo. Da qui mi è venuta probabilmente l’idea. Non più parole, mai più. Senza fiato. Afasia. Anche se già il nome Asie , il fonema Asie, le lettere dell’Asie, dall’altro lato del Medio Oriente biblico, venivano a stagliarsi per risuonare, riecheggiare e riflettersi in uno dei titoli (Les Miroirs de l’Asie [Gli specchi dell’Asia] (1954), il più chiaro e il più blu di tutti questi «grande formato»: come se, quasi al centro, tra vaghi serpenti eretti in modo quasi simmetrico, per rinviarsi la loro immagine faccia a faccia, una specie di pesce in immersione forse cristica, una di quelle numerose figure animali o zooteomorfiche della raccolta, tendesse ancora uno specchio al sole – a meno che non sia alla luna. Ma ecco che mi ritrovo ancora a descrivere, malgrado la promessa o il divieto).
(…)
Ogni pittura, ogni pittura in quanto tale, e anche se in apparenza porta e sopporta, come suo «soggetto», un titolo, cioè un nome (e i titoli senza sostantivo sono rari, che i nomi siano comuni o, come capita spesso qui, che siano propri, o ancora che esitino tra il proprio e il comune, includendo sempre in ogni caso qualche nome proprio nel nome comune: Le Grand Roi Atlante [Il Grande Re Atlante], Tanit, Calypso III, Baal Guerrier [Baal Guerriero], Pentateuque, Le Tao , La Redoutable, Les Miroirs de l’Asie, Jéricho, Sodome, La Kahena), ogni pittura degna di questo nome, dunque, in quanto tale, ha la vocazione di fare a meno del nome, voglio dire del titolo. Qui si esporrebbero la sua essenza e il suo spazio, la spaziatura stessa della sua spazialità – e letteralmente il suo colore. Da qui l’energia della sua danza e del suo canto. Là dove, facendo a meno del nome, de-nominandosi, essa chiama ancora e dà il suo luogo al nome. Irresistibilmente. Essa non si chiama con questo o quel nome, essa chiama un nome.
Pag. 245-246, 248
In fondo partirò, se vuole, dal «niente da vedere» – dal «niente da vedere» nel senso, al tempo stesso, dell’accecamento e della mancanza di rapporto. Quando si dice: «Non c’èniente da vedere», ciòsignifica: «questo non ha rapporto con quello» – ed èanche un modo per disegnare il campo dell’incompetenza. Nel corso di questi, diciamo, ultimi quindici anni, mi ècapitato di essere provocato in qualche modo dall’esterno – infatti, non lo avrei mai fatto spontaneamente – a scrivere sul disegno. L’ho fatto (…) nel contempo esponendomi e proteggendomi, vale a dire: ho l’impressione che tutte le volte che ho parlato del disegno fosse un modo per evitare di parlare della pittura. In uno dei testi raccolti in un’opera intitolata La verità in pittura, ci si accorge assai presto che, appunto, non parlo mai della pittura, cioèdel colore, della macchia di colore, ma di ciòche sta intorno: il disegno, ma anche i margini, la cornice; cio che, trovandosi all’esterno del disegno, viene in qualche modo a riempire o determinare l’interno; ciòche inscrive il disegno su una superficie, che lo eccede o, sul mercato della pittura, del disegno, ciòche lo inscrive in speculazioni che sono tanto quelle del mercato del disegno quanto quelle delle speculazioni teoriche, dei discorsi. Bene, io sto nel campo del discorso, vale a dire che quando vado verso le parole per parlare del disegno o della pittura, questa èanche una maniera di sfuggire a ciòche so di non poter dire a proposito del disegno stesso. Perchéin fondo – poichéla questione che qui viene posta a tutti i partecipanti e: «Che cos’èil disegno?» – la mia risposta e: «Non so cosa sia il disegno». E, continuamente, sono tentato di ricondurre il disegno verso l’insignificante, cioèverso il tratto. Ed èin questo modo che, incessantemente, sono stato portato a ricondurre la mia preoccupazione del disegno verso la mia preoccupazione piùantica e piùgenerale del tratto di scrittura, della linea della scrittura nella misura in cui essa consiste in un reticolo o sistema di tratti differenziali.
Il tratto differenziale (…) è, naturalmente, il tratto apparentemente visibile che separa due pieni, o due superfici, o due colori, ma che, in quanto tratto differenziale, èciò che permette ogni identificazione e ogni percezione. Allora, il tratto differenziale, metaforicamente, può designare allo stesso modo ciòche all’interno di qualsiasi sistema, grafico o meno, grafico in senso comune o meno, istituisce delle differenze, per esempio in una parola, in una frase – e la linguistica saussuriana –, il tratto differenziale, il tratto diacritico, è ciòche permette di opporre lo stesso e l’altro, l’altro e l’altro, e di distinguere. Ma il tratto in quanto tale, esso stesso in quanto tratto differenziale, non esiste, non ha pieno. Se volete, tutto il pensiero o la teoria della traccia che avevo cercato di elaborare senza un riferimento essenziale al disegno – sebbene in Della grammatologia sia stata posta anche la questione del disegno in Rousseau –, nondimeno, al di là del disegno propriamente detto, la traccia o il tratto, designerebbe – in ogni caso, èciò che ho cercato di mostrare – la differenza pura, la diacriticità, ciòche fa sìche qualcosa si possa determinare per contrasto rispetto a un’altra cosa: l’intervallo, la spaziatura, cio che separa. E allora ciòche separa – l’intervallo, la spaziatura – non èniente in sé, non èné intelligibile ne sensibile, e in quanto non èniente non èpresente, rimanda sempre ad altro e, di conseguenza, non essendo presente, non si da a vedere. In fondo la più grande generalità della definizione del tratto, cosìcome mi ha interessato da molto tempo, e che dàtutto a vedere in fondo, ma non si vede. Dàa vedere senza darsi a vedere. E dunque il rapporto con il tratto stesso – con il tratto senza spessore, con il tratto assolutamente puro –, il rapporto con il tratto stesso e un rapporto, un’esperienza di accecamento.
(pag. 160-162)
Esce in questi giorni per Jaca Book Pensare al non vedere (euro 30), un volume che raccoglie gli scritti sulle arti del visibile di Jacques Derrida, nell’edizione stabilita da Ginette Michaud, Joana Masó e Javier Bassas (2013). L’edizione italiana e la traduzione sono a cura di Alfonso Cariolato. Il libro propone un’ampia selezione dei testi dedicati alle arti nell’arco di venticinque anni (dal 1979 al 2004). Difficilmente reperibili perché disseminati in cataloghi, riviste, volumi collettanei o addirittura inediti, i testi sono stati rivisti e ricontestualizzati dai curatori e ripartiti in tre sezioni: la prima affronta il primato filosofico del visibile nell’arte; la seconda raggruppa testi realizzati nell’ambito di collaborazioni con diversi artisti e riguarda specificamente il disegno e la pittura; la terza raccoglie scritti dedicati alla fotografia, al video, al cinema e al teatro. Chiude il volume un intenso intervento in cui Derrida, a due mesi dalla morte, parla del suo complesso rapporto con la propria immagine. Un’utilissima bibliografia e filmografia, infine, permettono al lettore di orientarsi nella vasta produzione del filosofo riguardante le arti. Qui pubblichiamo due estratti dal libro, sull’idea di tratto e a proposito del lavoro dell’artista Jean-Michel Atlan – con, annessa, la questione del nome nell’arte. «A lato» c’è poi una riflessione del filosofo francese Jean-Luc Nancy su Derrida e l’arte.
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