Scotellaro, coralità d’arte involontaria per il filo d’erba
Gianni Dessì, «Due x due (Fra te e me voglio piantare un frutteto...)», 2023, acrilico su tavola e foglia d’oro
Alias Domenica

Scotellaro, coralità d’arte involontaria per il filo d’erba

Un mostra, un volume Dall’89enne Lorenzetti al 28enne Brandimarte, Giuseppe Appella ha convocato 45 artisti a dialogare, e dissonare, intorno al lascito lirico ed etico del poeta lucano (1923-’53)
Pubblicato 12 mesi faEdizione del 26 novembre 2023

«Poeta vero ( in tutti i sensi contemporanei e equivalenti della parola, come azione, come creazione, come immagine) della libertà contadina». Questo era, nelle parole commosse di Carlo Levi, Rocco Scotellaro: un poeta nella letteratura e nell’impegno sociale, una voce riconoscibile e forte nel dibattito pubblico dell’Italia del secondo dopoguerra.

Nei trent’anni brucianti della sua vita Scotellaro, nato a Tricarico, in Basilicata, nel 1923, ha scelto sempre di mettersi in gioco, partecipando alle trasformazioni turbolente di anni incerti, pieni di speranze e disillusioni, assumendosi con risolutezza l’onere di schierarsi e di giudicare. Nei giorni vissuti in Lucania, tra Tricarico, Matera e Potenza, ma anche a Trento, dove ha compiuto gli studi liceali, poi a Roma, città in cui ha conosciuto alla fine degli anni quaranta i fermenti e le contraddizioni di una stagione culturale e artistica irripetibile, infine a Portici, dove era impegnato nell’Osservatorio di Economia agraria quando la morte lo sorprese nel dicembre del 1953, Scotellaro non si è messo mai al riparo della poesia. Il suo impegno di intellettuale si è tradotto in un’azione politica che ha guardato innanzitutto alla sua terra: il poeta aveva 23 anni quando, nel 1946, divenne sindaco socialista di Tricarico, subendo tutte le conseguenze di questa scelta coraggiosa.

La critica ha molto insistito sulle radici profondamente lucane dell’opera di Scotellaro, che della sua origine non ha fatto, va sottolineato, uno strumento di oppositiva, rivendicativa identità, avvertendo piuttosto la responsabilità di essere testimone di un mondo ai margini, quei margini, lo ha segnalato tante volte bell hooks, attivista e femminista nera, da cui si vedono e si comprendono meglio le dinamiche, spesso distorte, dei rapporti sociali. I libri di Rocco Scotellaro, tutti postumi, restituiscono della Basilicata volti e paesaggi, ritmi, miserie e passioni, senza farne però mai agiografia. Sono testi lucidi che hanno, insieme, valore poetico e civile e attestano la forza di uno sguardo reso più acuto dall’incontro, certo non casuale, con l’arte. Rocco Scotellaro non ha voluto essere il pietoso cantore dei vinti, ha inteso piuttosto segnare «una strada senza distrarsi per l’amore di una somiglianza che è l’esperienza comune» (Levi).

Ed è appunto un’esperienza, un progetto comune, unico nelle ragioni e diversissimo negli esiti, quello che Giuseppe Appella ha scelto per dare nuovi segni, colori e parole all’opera di Rocco Scotellaro e al suo amore, non troppo segreto, per l’arte, di cui il critico ha messo in evidenza con puntualità gli snodi e le ragioni. In occasione delle celebrazioni dei cento anni della nascita del poeta, Appella, da sempre attento a rintracciare e ritessere le trame che nel Novecento hanno legato in profondità i percorsi dell’arte e della poesia, non ha infatti avuto esitazioni nel tentare un’impresa curatoriale persino temeraria, fuori dal dalle logiche che oggi governano il sistema dell’arte: a quarantacinque artisti, di generazione e sensibilità differenti, il critico ha inviato il volume che raccoglie tutte le opere di Rocco Scotellaro (a cura di Franco Vitelli, Giulia Dell’Acqua e Sebastiano Martelli, Mondadori 2019), chiedendo a ciascuno di rispondere con un’opera e anche con un pensiero a questa insolita, certo impegnativa, chiamata alle arti.

E la mia Patria è dove l’erba trema è il verso di Scotellaro che Appella ha scelto come titolo di una mostra che è stata fino allo scorso 19 novembre alla Galleria Nazionale d’arte Moderna di Roma e che è ora da leggere e nel volume, edito da Silvana, in cui sono confluiti opere e testi. Carlo Lorenzetti, Ruggero Savinio, Mario Raciti, Giuseppe Pirozzi, Paolo Icaro, Giulia Napoleone, Claudio Verna, Emilio Isgrò, Mario Cresci, Assadour, Giancarlo Limoni, Mimmo Paladino, Stefano Di Stasio, Sandro Sanna, Ernesto Porcari, Gregorio Botta, Giuseppe Modica, Giuliano Giuliani, Nunzio, Lucilla Catania, Roberto Almagno, Claudio Palmieri, Giovanna Bolognini, Giuseppe Salvatori, Gianni Dessì, Marco Tirelli, Felice Levini, Enrico Pulsoni, Salvatore Cuschera, Andrea Fogli, Franco Fanelli, Giuseppe Caccavale, Elvio Chiricozzi, Elisabetta Benassi, Giuseppe Capitano, Ciro Vitale, Giuseppe Ciracì, Pierpaolo Lista, Francesco Arena, Alberto Gianfreda, Laura Paoletti, Ilaria Gasparroni, Antonio Della Guardia, Veronica Bisesti, Ado Brandimarte: ordinati per età – dai quasi novant’anni di Lorenzetti ai ventotto di Brandimarte –, gli artisti convocati hanno reagito con intensità e partecipazione diverse, dando vita a opere tra loro distanti e persino dissonanti.

Come conciliare il sasso nichelato della giovane napoletana Bisesti (Anche una pietra) con il piccolo olio su tela di Ruggero Savinio (Io sono un filo d’erba), le ritmate Piramidi di stelle del grande pastello di Giulia Napoleone e 495 metri di campo arato, una fotografia su carta cotone datata 2005, di Elisabetta Benassi? O ancora, come accordare l’installazione mixed media di Ciro Vitale (E la mia patria è dove l’ombra si infrange) e l’incisione di Franco Fanelli (Siamo in due a domandarci/ se mai tutti gli uomini a quest’ora/ hanno preso tra i denti un pane nero)? Che cosa lega il lavoro di Pierpaolo Lista, con la sua teoria araldica di attrezzi agricoli (Contadini del Sud), le scansioni astratte e, insieme, liriche dell’opera di Gregorio Botta (La terra mi tiene), le sapienti terracotte (Bianco per Rocco) di Enrico Pulsoni?

Il valore, che è anche la consapevole sfida, della mostra e del volume, aperto dalla ricostruzione storico-critica di Appella e da uno scritto di Isgrò, sta proprio nel non provare in alcun modo ad accordare le voci, lasciando a ciascun invitato la libertà della propria risposta, in immagini, in materie e in parole, parole che talvolta sono eluse (Mimmo Paladino preferisce accompagnare la sua grande tela con un asciutto «Questo è il mio omaggio a Scotellaro») e che in altri casi sono persino esuberanti. A emergere è una coralità involontaria e per questo disinibita: schegge di un frantumato specchio in cui la lezione di Rocco Scotellaro ci ritorna vivida e tagliente, fragile e per questo capace di parlarci ancora di speranza, di farci immaginare, in questi tempi soffocanti, il soffio che scopre ulteriori orizzonti: «Io sono un filo d’erba/ un filo d’erba che trema/ E la mia Patria è dove l’erba trema./ Un alito può trapiantare/ il mio seme lontano».

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