Visioni

Scorsese, le regole del racconto

Scorsese, le regole del raccontoLeonardo Di Caprio

Wolf of Wall Street Tra «Casinò» e «Quei bravi ragazzi»

Pubblicato più di 10 anni faEdizione del 23 gennaio 2014

Era ora. E, a dire il vero, ormai non ci si sperava più. Che Martin Scorsese potesse nuovamente ascendere al cielo dell’assoluto cinematografico, se per una volta c’è concessa l’iperbole, sembrava ormai una faccenda da ascrivere al novero dell’improbabile. Dopo Gangs of New York, Scorsese si è sottoposto a una penitenza autoinflitta in funzione dell’ottenimento di una rispettabilità hollywoodiana per la quale ha sacrificato hybris e visionarietà.

Insomma, Scorsese si è autocondannato al Purgatorio per i suoi peccati cinematografici, nella speranza che i custodi del Paradiso hollywoodiano si decidessero finalmente ad accoglierlo. Così, se si esclude parzialmente The Aviator, c’è ben poco che valga davvero la pena di salvare nell’intervallo che da Gangs s’estende sino a Hugo Cabret. I doc su George Harrison e Bob Dylan sono un discorso a parte. A rendere la sofferenza ancora più acuta, la collaborazione con Leonardo DiCaprio, attore immenso le cui qualità esaltavano negativamente le mancanze di film come The Departed o Shutter Island. Così mentre piccoli Scorsese spuntavano un po’ ovunque, quello vero, soddisfatto della svolta della sua carriera, sembrava rintanato nel perimetro delle proprie certezze. Eppure, sin dalle prime notizie trapelate intorno alla lavorazione del film, era evidente che sperare che The Wolf of Wall Street potesse segnare un parziale ritorno di forma del nostro era lecito e non solo un atto fideistico. Come un Prometeo finalmente libero delle sue catene, Scorsese ruggisce con tutto l’orgoglio di cui è capace un uomo che vanta fra i suoi capolavori titoli come Toro scatenato e L’ultima tentazione di Cristo.

Un film che sembra riallacciarsi direttamente a Casinò e condurne a compimento il surreale cubismo formale, probabilmente la punta più avanzata del modernismo hollywoodiano. Nel portare sullo schermo l’autobiografia di Jordan Belfort, broker senza scrupoli, al cui confronto Gordon Gekko è un idealista frankcapriano, Scorsese è come inebriato dalla rinnovata fiducia nel suo furore creativo. E, finalmente!, la collaborazione con DiCaprio gira a pieno regime. I due si spalleggiano a vicenda: l’uno asseconda i voli dell’altro. Leonardo Di Caprio balla con la macchina da presa come Gene Kelly con Cyd Charisse. Tutto fila via in maniera così fluida da restituirci al nostro stupore di bambini quando, ignari dei poteri del montaggio, i film sembravano essere un unico piano sequenza. La sovrumana potenza visionaria di Scorsese risuona in ogni stacco di montaggio, in ogni movimento di macchina al punto che pare sentirlo mentre ringhia ai suoi collaboratori: «Play it fuckin’ loud!», proprio come ordinò Bob Dylan a Robbie Robertson e ai suoi sodali della Band all’alba della svolta elettrica. Ed è proprio a Robertson, fedelissimo, cui si deve una selezione di brani fulminanti che vanno da classici del blues eseguiti da maestri come Elmore James, John Lee Hooker o Jimmy Castor, passando per Charles Mingus e giungendo infine ai Devo, ai Cypress Hill, ai Foo Fighters e a Plastic Bertrand (senza contare una sorpresa tutta italiana…).

Con The Wolf of Wall Street, il regista ritrova il piacere di raccontare infrangendo ogni regola della linearità. Come un nastro di Escher impazzito, Scorsese ricorre a tutte le strategie e risorse possibili. Flashforward incastonati in flashback (e viceversa), moltiplicazione ininterrotta dei punti di vista, angolazioni sempre sorprendenti, dialoghi ultraveloci con la parola e il verbo «fuck» modificati, declinati e coniugati in ogni modo possibile. Il tempo filmico sembra argilla fra le mani di un creatore posseduto dalla pura gioia della mitopoiesi che conduce le danze con un piacere satanico per giungere all’apice della botta da Qualuude in ritardo che è già passata alla storia del cinema.

The Wolf of Wall Street è il cinema di Scorsese al calor bianco. Un’opera complessa e radicale che sposta in avanti quanto sappiamo oggi del cinema, rilanciando tutte le potenzialità del discorso scorsesiano rimasto per troppo tempo fermo alle convenzioni hollywoodiane. Bentornato Marty!

 

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