Avvicinarsi ai libri amati da uno scrittore permette di frugare tra le passioni che lo hanno educato, accendendo le sue curiosità e segnando la sua formazione. Nel caso di Domenico Starnone, non si tratta di misurarsi unicamente con lo scrittore, ma anche con il docente che ha conosciuto il mondo della scuola, raccontandone grandezze e miseria: L’umanità è un tirocinio (Einaudi, pp. 312, € 18,00) testimonia come abbia agito, nella storia personale, il vizio assurdo della lettura. Il titolo contiene una premessa implicita: «Umani si diventa» e i libri aiutano.

All’altezza dei suoi ottant’anni, Starnone raccoglie venticinque interventi sulle opere e sugli autori che lo hanno nutrito: Henry James e i fantasmi del Giro di vite; Tozzi e la «disperazione a bassa voce» di Adele; i «ricordi imbrogliati» nel Samonà di Fratelli; la «vita comune» narrata da Natalia Ginzburg; le «radici dialettali» di Sciascia; il «modo assolutamente diverso di raccontare» del La Capria di Ferito a morte; e poi Meneghello di Libera nos a malo e Lord Jim di Conrad, e Carver e altri ancora. Non c’è ordine cronologico che dia una continuità alla serie. Gli autori e i loro libri sono compagni di strada di un solo cammino e convivono l’uno insieme con l’altro.

I singoli testi sono scorribande vivacissime tra le opere altrui, sopravvissute come frammenti di vita ancora calda. Non ci sono protocolli speciali né domande precostituite. Può valere forse un unico avvertimento, consegnato come promemoria per sé e per gli altri: «La prima lettura di un testo è sempre quella decisiva, anche quando di essa sembra che resti poco o niente: quel che dura nella memoria è ciò che veramente ci importa e che era stato scritto apposta per noi».

L.e interpretazioni implicano coinvolgimento intellettuale ed emotivo e allora la sensibilità di chi legge si fonde con la pagina che ha davanti e la rianima. Se una tale scintilla si accende insegnando, l’aula diventa una comunità interpretante, guidata da curiosità e intelligenza. In questo caso, le illuminazioni che un testo riserva sono sorprendenti. Uno degli interventi più intriganti, Il ritratto insanguinato. Racconto scolastico, descrive le rivelazioni che arrivano quando la lettura si libera di qualunque filtro e lascia che la lettera del testo acquisti risonanze inedite, colorando una storia ogni volta seducente e in modi inattesi. Perfino le Ultime lettere di Jacopo Ortis possono prendere, nel corso del tempo e nell’immaginario di giovani lettori, sembianze volta per volta differenti, che amplificano la ricchezza potenziale dell’opera. La scuola non è solo un intreccio di punti di vista. È anche un microcosmo sociale su cui riflettere ogni volta.

Nel saggio Paura di Franti, la sollecitazione è data da un libro cardine nella formazione dell’infanzia di un’altra epoca: Cuore di Edmondo De Amicis. L’immagine di Franti, restaurata da Umberto Eco, si mescola con la paura che il personaggio incuteva una volta e il libro di De Amicis diventa, a distanza dalle prime allarmate letture, «una pattumiera molto interessante, da quelle da cui è possibile dedurre come ci si è nutriti nel corso della giornata».
Il libro di Starnone è insieme l’archivio di un lettore che ripercorre le proprie personali avventure, e il manifesto di uno scrittore, che definisce le ragioni e il senso del lavoro compiuto. Nel primo intervento, Disonestà del racconto, Starnone indica le basi su cui si fonda per lui lo scrivere. I segni della scrittura non sono la trascrizione fattuale degli avvenimenti, la loro cronaca fedele e autentica. Hanno un’altra radice, che affonda nella natura fatalmente creativa della letteratura.

Il corso dell’esistenza non è coerente, simile a un documento che possegga una verità inalterabile. I fatti messi in parola sono soprattutto una finzione: «Solo quando si impara a essere disonesti coi fatti, nasce il racconto. Se, come narratore, mi fermo alle cose come sono andate, né il racconto né le cose vanno molto lontano». La trasparenza automatica degli eventi è una pura illusione: «Servono le parole. È il modo di raccontare che rende divertenti i fatti, sono ‘le ali’ a trasformarli in ingranaggio narrativo e gioco del linguaggio, in socializzazione del malumore. Il racconto è roba per chiacchieroni che reinventano l’accaduto».

Philip Roth proclama che se in un libro si cerca solo la biografia, si è sordi «a tutti gli espedienti di cui si servono i romanzieri per creare l’illusione di una realtà più reale della nostra stessa vita». Starnone aggiunge che «non importa riprodurre l’esperienza (sempre eccedente) ma solo usarne qualche elemento perché il nocciolo di verità che ci sta a cuore trovi un contenitore e si esprima». E accade che una parola dalla grana preziosa e dal significato sconosciuto (vanesia), fiorita improvvisamente in mezzo ai timbri aspri del dialetto e urlata dal padre alla madre durante una lite notturna, costituisca la scintilla di una vocazione letteraria, avvertita oscuramente «in quei suoni del mondo che sbandano ogni volta che scommetto di poter fare scrittura».