Cultura

Scorribande ai confini dell’esclusione

Scorribande ai confini dell’esclusione – Andrea Sabbadini

Passaggi Un saggio sulla figura intellettuale di Abdelmalek Sayad. Un attento studioso delle migrazioni alla ricerca di una democrazia senza Stato

Pubblicato circa 11 anni faEdizione del 5 ottobre 2013

Gennaro Avallone e Salvo Torre hanno pubblicato un prezioso libretto dal titolo Abdelmalek Sayad: per una teoria postcoloniale delle migrazioni (Il Carrubo, pp. 128, euro 11) che, oltre a due testi inediti in italiano del grande sociologo algerino, allievo e collega di Pierre Bourdieu, scomparso nel 1998, contiene un’ampia presentazione dei due curatori del percorso intellettuale e politico di Sayad assieme agli interventi di Ahmed Boubeker e Abdellali Hajjat.

Il nodo attorno a cui ruotano i materiali qui raccolti è il nesso tra Stato, nazione e immigrazione, titolo di un saggio del 1983 che anticipa i più noti La doppia pena e l’immigrazione. Riflessioni sul pensiero di Stato del 1996 (pubblicato in aut-aut, n° 275) e Immigrazione e «pensiero di Stato» del 1998 (pubblicato nella raccolta La doppia assenza, Cortina) che riprendono l’idea di Bourdieu, secondo cui «affrontare una riflessione sullo Stato significa esporsi a fare proprio un pensiero di Stato», perché «uno dei poteri principali dello Stato è quello di produrre (specialmente attraverso la scuola) le categorie di pensiero che applichiamo spontaneamente a qualunque cosa, a cominciare dallo Stato stesso» (Ragioni pratiche). Ciò non significa attribuire allo Stato il monopolio della produzione delle categorie del pensiero né affermare che pensiamo solo attraverso quelle, ma significa mettere in luce il ruolo performante dello Stato in ambito cognitivo, e non solo in quello simbolico o dei rapporti di forza.

La politica coloniale francese in Algeria, campo d’osservazione privilegiato per Sayad e Bourdieu, costituisce il referente storico su cui poggiano le riflessioni di entrambi; il punto dunque è capire cosa resta ancora di valido di questa impostazione in epoca postcoloniale, a fronte di processi profondi di riarticolazione e ridefinizione delle prerogative dello Stato, il gigante dai piedi d’argilla più che il cristallo inscalfibile auspicato da qualcuno, il cui essere mortale non lo rende per questo già morto.

L’essenza dello Stato e del potere, per Sayad, è il pensare per confini che, dividendo tra un interno e un esterno politicamente connotati (cittadino/non-cittadino, libero/assoggettato, politico/non-politico), diventano pietre angolari di un ordine basato sulle appartenenze (nazionali, geografiche, linguistiche, storiche o altro). Così però Sayad rischia di fare dello Stato un dispositivo astorico, presente, nonostante le specificità, anche ad Atene e a Sparta o nelle città medioevali e rinascimentali, quasi fosse una costante antropologica, naturalizzando il dispositivo che ha il compito di naturalizzare la divisione arbitraria tra interno ed esterno: attraverso l’idea di nazione, ad esempio.

Tra inclusione e esclusione

L’attualità della teoria di Sayad è duplice: innanzitutto, essa mostra il permanere delle categorie del pensiero di Stato anche dopo la decolonizzazione quali pilastri per la costruzione degli Stati postcoloniali – un effetto di lunga durata dovuto all’assimilazione forzata delle strutture cognitive, materiali e simboliche imposte dai colonizzatori; secondariamente, ma non per importanza, essa mostra la versatilità dello Stato, capace di riprodursi di là dall’idea di nazione, perché «non è necessario che lo spazio da difendere coincida con i confini nazionali della tradizione otto-novecentesca: il principio di esclusione si applica all’appartenenza istituzionale o ideale riconosciuta». Anche nella società capitalistica globalizzata, infatti, dentro e fuori quel che resta (a volte molto) degli Stati-nazione (si pensi all’Europa, che si comporta come uno Stato pur non essendolo formalmente e senza essere una nazione; o al desiderio di uno Stato da cui sgorgano gli immaginari confini padani), si costruiscono nuovi muri e si tracciano nuovi confini d’ogni tipo per provare a governare il rapporto tra inclusione ed esclusione.

L’idea che guida lo Stato è che, grande o piccolo, immaginario o reale, cognitivo o simbolico che sia il «territorio» recintato, c’è una «proprietà» da difendere. Una proprietà materiale, simbolica e cognitiva che è tutt’uno con l’identità, immaginaria ma reale, di coloro che la difendono dall’espropriazione e dalla contaminazione.

Se, però, da un lato, è vero che i difensori del fantasma della purezza spesso non si rendono conto che «le frontiere sono ormai mescolate» e che non riconoscerlo significa essere «stranieri alla propria storia» (Boubeker), in altri casi è proprio perché ne sono consapevoli che cercano di riattivare la macchina cognitiva, militare e simbolica (che funziona a paranoia più che a paura), che cerca di gestire i confini e la mobilità attraverso di essi stabilendo «come si entra regolarmente al suo interno». Lo Stato, come una setta o una cosca, si basa sull’assimilazione di un’identità. È solo esibendola che si può entrare. Ecco perché «libere migrazioni e liberi migranti sono possibili solo facendo saltare il pensiero di Stato» ed ecco perché i migranti «sono il limite della democrazia europea». Finché ci sono migranti (emigranti-immigrati), la democrazia è incompiuta, perché finché ci sono confini c’è Stato. Ci vorrebbe, dunque, una democrazia senza Stato, del tutto fuori moda rispetto ai mille particolarismi e ai mille Leviatani che spuntano ovunque nel mondo e che, procedendo per esclusione o per integrazione, «l’ultimo rifugio ideologico del colonialismo», configurano «il continuo processo di costruzione e ricostruzione della nazione». Decolonizzare l’Europa e i paesi coloniali (vecchi e nuovi) è un’esigenza che va di pari passo con la deconolizzazione dei colonizzati, perché, come mostra Sayad «da immigrato», «lo spazio coloniale» è presente anche nelle «città francesi» e dà loro la forma. La decolonizzazione non è conclusa, ma è «un processo incompiuto, che continua a esprimersi, conflittualmente», in ogni luogo e a ogni livello della società postcoloniale, dove vecchi e nuovi colonizzatori e vecchi e nuovi colonizzati vengono a contatto quotidianamente.

La menzogna delle istituzioni

È vero, notano giustamente i curatori, che «Sayad non valorizza la libertà dei corpi dei migranti postcoloniali», perché legge in essi solo «l’eredità del rapporto sociale coloniale», pur cogliendo «la portata politica sovversiva della migrazione» (Boubeker), come dimostra la sua attenzione per le forme di organizzazione politica degli immigrati algerini in Francia (Hajjat). Evidenziando i lasciti coloniali nei comportamenti e nei pensieri dei migranti, Sayad ha impostato, ma non portato a termine, una «sociologia della liberazione» che dovrebbe consentire ai migranti di «ripensare se stessi in termini nuovi», perché «ribellarsi contro la menzogna di Stato significa ribellarsi contro se stessi» (Boubeker). È proprio perché i migranti modificano con i loro movimenti i territori di origine e di approdo, bucando e trasformando i confini che li definiscono, che le categorie di inclusione ed esclusione vengono riattivate, anche se in forme differenziali, sia da parte di chi le vorrebbe più rigide sia da parte di chi le vorrebbe più dialettiche o porose. È in questa contraddizione che Sayad ha scavato e ci sollecita a proseguire.

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