Scolpire i traumi con precisione chirurgica
Mostre Nella Lobby Gallery del New Museum, la personale «Revolted» dedicata a Doreen Lynette Garner, artista, performer e tatuatrice
Mostre Nella Lobby Gallery del New Museum, la personale «Revolted» dedicata a Doreen Lynette Garner, artista, performer e tatuatrice
La luce è rossa in cui è immersa la Lobby gallery del New Museum di New York è disorientante e anche piuttosto inquietante. Inoltre, in inglese «see red» significa «non vederci più dalla rabbia»: questo potere simbolico del rosso trova conferma nell’associazione alla mostra personale Revolted di Doreen Lynette Garner (Philadelphia 1986, vive e lavora a Brooklyn), curata da Vivian Crockett e visitabile fino al 16 ottobre.
«Scolpire il nostro trauma» è il leitmotiv della scultrice, performer e tatuatrice che si confronta in maniera viscerale (e liberatoria) con l’esplorazione di forme antropomorfe che incarnano capitoli della storia americana legati all’odio e alla violenza razziale, alla schiavitù e al colonialismo, sulla scia di Black Lives Matter.
IL TESSUTO SUPERFICIALE e gli organi interni (anche la medicina e le patologie) sono il soggetto di un’indagine profonda che Garner mette in scena lavorando con la stessa precisione di un chirurgo in sala operatoria o di un macellaio nel mattatoio. Tabù sviscerati che svelano il loro contenuto nascosto, come nell’opera Here hangs the skins of a surgical sadist! To be physically assaulted by those who identify as Black women, those who formerly identified as Black women, and those who were identified as Black women at birth («Qui sono appese le pelli di un sadico chirurgo! Per essere aggredite fisicamente da coloro che si identificano come donne nere, coloro che in precedenza si identificavano come donne nere e coloro che alla nascita erano identificate come donne nere»).
Un lunghissimo titolo che denuncia le azioni di colui che, negli Stati Uniti, è considerato il padre della ginecologia: James Marion Sims (1813 -1883). Un cinico razzista che praticò i suoi orribili esperimenti (senza anestesia) su almeno dieci donne nere schiave, tra cui Lucy Zimmerman, Betsey Harris e Anarcha Wescott.
Quest’opera del 2022 fa parte di un work in progress iniziato nel 2017: l’artista è tornata a lavorare sulla controversa statua bronzea di fine Ottocento che ritrae Sims (tra il 1934 e il 2018 era collocata a Central Park, quando è stata rimossa in seguito alle proteste contro le discriminazioni razziali del Black Youth Project 100) realizzandone l’impronta in silicone e ricreando nel suo studio, insieme ad altre donne nere, un intervento performativo di chirurgia su quella replica.
CIÒ CHE RIMANE è un ammasso di pelle di silicone (la testa mozza è ottenuta ricoprendo un sacco da boxe) connessa con elementi della ritualità africana e della diaspora: la rafia e le cipree. «C’è un confronto con la vendetta – spiega Vivian Crockett – ma anche una riflessione sulle conseguenze delle azioni e sull’aspetto etico di questi sentimenti». Accompagna lo sguardo del visitatore una musica di sottofondo che ricorda il suono delle onde, ma che è una rielaborazione della voce di Grace Jones mentre canta Amazing Grace.
LA MOSTRA È DENSA di riferimenti alla storia dell’arte, alcuni espliciti come a Michelangelo oppure Turner. In I’d rather the viscera of me floating on the surface of the sea than be dragged into hell by those pale and free, Garner cita il dipinto Slave Ship (Slavers Throwing Overboard the Dead and Dying, Typhoon Coming On) del 1840, un manifesto dell’impegno progressista del pittore inglese nella rappresentazione di avvenimenti del suo tempo, dichiarando la propria posizione antischiavista.
Nella produzione di Doreen Lynette Garner il senso del bello e del grottesco, nel continuo oscillare tra attrazione e repulsione, sono veicolati dall’utilizzo di materiali come silicone, schiuma isolante, capelli sintetici, inchiostro per tatuaggi, vaselina, perle, perline, vetro e cristalli sintetici: tutti insieme rendono l’idea della carne, degli organi, dei fluidi, di pustole e ferite.
In The Feast of the Hogs, altra opera chiave della mostra che sollecita (ma questo la curatrice non lo dice) la memoria degli ammassi informali di Francis Bacon o della carne di Soutine, l’artista dà forma alla rabbia e alla ribellione, lacerando e liberando un dolore antico.
L’EPISODIO CHE CITA risale al 24 gennaio 1773. A bordo della nave New Britannia, durante la navigazione sul fiume Gambia, in Africa Occidentale, si è consumato uno degli eventi più drammatici della storia della rotta degli schiavi (oggetto anche delle ricerche di Marcus Rediker, autore del volume The Slave Ship: A Human History). Alcuni bambini riuscirono a consegnare gli attrezzi agli uomini incatenati che erano ammassati all’interno del ponte centrale, loro spezzarono le catene e presero possesso della stanza delle armi, ma ciò causò una violenta esplosione che distrusse la nave e uccise schiavisti, membri dell’equipaggio e gli oltre duecento schiavi provenienti dalla regione del Senegambia.
Un drammatico «suicidio di massa» per negoziare la libertà negata.
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