Per permettere ai lettori di conoscerti un po’ inizierei col chiederti di parlare della tua idea di cinema. Ci sono registi per cui il cinema significa la narrazione di una storia, chi lo vede principalmente come oggetto culturale, chi come esibizione effettistica, chi pensa biecamente al botteghino ecc.

  • Per Schirinzi il cinema è…..?

Immagine che si ascolta e suono che si vede. Il grande cinema, come la grande arte, riesce ad abbattere gli argini epocali e a non essere relegato al suo tempo: alcuni film di Kurosawa, Ozu o Bergman sono di un’attualità impressionante. Le partiture di ogni singolo strumento (luce, suono, fotografia, recitazione…) assumono tutte la stessa importanza per la riuscita di questa grande melodia, pur raccontando storie ambientate in luoghi e tempi ben precisi, penso a Playtime di Tati o ad Aguirre di Herzog, ma anche a Dog Star Man di Brakhage, a Salomé di Carmelo Bene o a Two years at sea di Ben Rivers.

  • Un metodo di lavoro “tsukamotiano”, che spesso ti porta a ricoprire una pluralità di ruoli produttivi, regista, operatore, montatore, sceneggiatore, tecnico del suono. Ne parliamo?

L’amato Tsukamoto è l’esempio più calzante! Esiste un cinema corale che necessita di tutti gli operatori, ed un cinema solitario caratterizzato da un approccio più intimo dove, molto spesso, l’autore ricopre tutti i ruoli professionali. Pur avendo attraversato brevemente il primo di cui conservo un felice ricordo (Il nido, 2003), ho scartato questo percorso calcolato su tempistiche industriali e sindacali e su sceneggiature da cui è impossibile evadere. Nel 2004 nasce la Untertosten Film / Produktionen Aurtarkiken, una fantomatica casa di produzione nel cui logo compaio nelle vesti di una Minnie scassata: l’esigenza non era chiedere assistenza alle istituzioni ma di utilizzare questo timbro per marchiare i miei lavori come carne da macello, anche perchè queste assistenze, spesso dimostrano come il cinema nasca già malato, privo di forze.

  • questo modo di lavoro “aperto”, diciamo così, ti ha portato a sperimentare supporti diversi, pellicola, digitale ecc, addirittura arrivando, nella serie delle Iconoclastie Al Negativo, a graffiare, a incidere manualmente la pellicola, a scorticarla, ne desumo che per te il “supporto”, componente ottico-tecnologica del film, il medium, assuma una rilevanza significazionale primaria, ai fini della semiosi complessiva dell’opera

La scelta del supporto è fondamentale. Le iconoclastie su(al) negativo sono stampe ottenute dal procedimento di asportazione manuale dell’emulsione dalla pellicola 35mm, mediante graffi praticati con lame, un lavoro che getta le sue radici nella scultura romanica. Le Eclissi sono videoperformance sull’occultamento dell’immagine sonorizzate dal vivo da Larssen e Urkuma, in cui il found-footage ha lo scopo di cancellare e non di riesumare il passato, in questa contemporaneità priva di speranza. Il cinema è sempre una questione bidimensionale, una stratificazione di pelli disposte a farsi accarezzare, scalfire e attraversare: il supporto, analogico o digitale, è un corpo tatuato da immagini che scivolano trasversalmente, come nella retina, nessuna illusione di tridimensionalità scenografica, luminosa o audio può distrarci dall’essenza piana del cinema – Kubrick lo aveva capito bene: lo studio delle superfici che ha mosso i primi lavori (Terminale, 2000; Uniforme, 2000; Dé-tail, 2001; Zittofono, 2005) continua ad accompagnarmi (Sonderbehandlung, 2008; Fuga da Nicea, 2008; Deposizione in due atti, 2014; Eclisse senza cielo, 2016)

  • Ovviamente, stando così le cose, l’usare o il non usare la pellicola, l’usare o il non usare il digitale sono scelte pregne di intenzioni nella tua poetica:

Ho utilizzato la pellicola solo per le Iconoclastie, i film sempre in video, analogico e digitale. È contronatura montare in digitale materiale girato in pellicola, una staffetta che distilla solo la parte estetica, è come dipingere la copia di un quadro per poi esporre la stampa fotografica di tale copia. Uso il digitale per due motivi: il primo è prettamente economico visto che il 90% dei miei lavori sono autoprodotti, il secondo è di natura poetica poiché la matericità digitale è simile a quella pittorica essendo costituito dal codice binario che ricostruisce totalmente ciò che filma non produce una copia.

La scelta del mezzo è dettata dalla conoscenza delle sue caratteristiche tecnico-espressive e l’autore, come il dentista, dovrebbe sapere che per estrarre un dente si utilizza la pinza odontoiatrica e non un qualsiasi bisturi: se da un lato l’avvento del digitale ha permesso a tutti di realizzare film, dall’altro l’abuso di potere del proletariato cinematografaro ha originato una documentazione della pietà e della mediocrità che spesso il critico, più colpevole dell’autore, elegge a Cinema. L’entusiasmo punk che palpitava nei filmati durante i primi anni del digitale è stato vinto dall’odierno confezionamento perfetto che, spesso, omologa i lavori.

Sperimentazioni sul supporto, ma hai lavorato anche con il fish-eye, con filtri e lenti rigorosamente analogiche ed artigianali, hai saggiato la “tenuta” dello spleet-screen e del sistema di relazioni di senso che necessariamente induce tra le immagini che vengono accostate in Addestramento All’apocalisse, in Dal Toboso c’è molta attenzione alle possibilità significazionali del sound design e della relazione tra campo visivo e suono fuori campo (penso al cavallo che riesci a far esistere sotto i sederi di due personaggi inquadrati dalla vita in su unicamente attraverso il rumore “off”degli zoccoli, ben sapendo che lo spettatore, per abitudine percettiva, sentendo il rumore automaticamente attiverà l’immagine mentale sincrona dell’equino che cammina), in Notturno Stenopeico, la riflessione storicizza il linguaggio e si concentra sulle possibilità pre-cinematografiche della visione, utilizando una scatola stenopeica. Le possibilità di selezione del visivo implicite nel mezzo qui sono sfruttate per l’ootenimento di esiti espressivi consoni alla drammaticità del tema. Il secondo atto della tua Deposizione è un piccolo saggio sul movimento di macchina e sulle sue implicazioni temporali, che fornisce anche il motore primario a questa narrazione squisitamente visiva:

  • La tua relazione con la componente tecnologica del fare cinema si direbbe “attiva”, militante addirittura, nel senso che sembri cercare di opporre una strenua resistenza, al fatto che siano le caratteristiche specifiche degli strumenti tecnologici che utilizzi a determinare “la forma” del tuo esprimerti. In tutti i film che ho citato sembra evidente, semmai, lo sforzo contrario, quello cioè di piegare, di funzionalizzare di volta in volta proprio quegli aspetti di linguaggio dipendenti dalle caratteristiche del mezzo a una intenzionalità di senso e d’espressione ben precisa.

Utilizzo il digitale in ‘modalità analogica’, è impossibile non tener conto delle secolari sperimentazioni dagli artisti: si può considerare ‘nuovo’ un lungo piano sequenza? Spacciare per Beniano un film che utilizza musiche di Verdi? Basta poco per provocare orgasmi a certa critica! Se per un attimo sfogliassero Vita delle forme di Focillon capirebbero che si tratta solo di slittamento di forme da un media all’altro. Il piano sequenza è il primo racconto per immagini non ancora intaccato dalla scansione spazio-temporale della rappresentazione antropocentrica: i graffiti di Lascaux, i bassorilievi egizi, ma anche i campi lunghi di Bosch dove tutto è scaraventato in superficie e tocca all’osservatore montare la sua storia. Il filmare tutto fagocita per poi vomitare su un campo di battaglia dove la strumentazione diventa un’arma ludica da assoggettare ai propri desideri, come la pistola a pois in Dillinger è morto.

Arriviamo così a Deposizione in due atti,

  • La definiresti un’opera principalmente costruita sul movimento di macchina (atto secondo) e sul suo antinomico, l’assenza di movimento (atto primo, in cui i piccoli movimenti del campo visivo pur presenti, sono strettamente funzionali alla lettura delle pitture, tutti interni allo spazio dell’immagine, non interpretabili come forme di attraversamento di uno spazio reale, cosa che invece avviene con i lentissimi spostamenti laterali o in profondità con cui percorri gli spazi nel secondo atto)?

È una questione materica: le parole di Artaud ci strappano dal racconto per scagliarci nella risonanza magnetica d’un corpo architettonico. Gli affreschi osservano, mentre sono osservati, l’interno del proprio corpo: è un corpo che ha ruotato le pupille all’indietro bagnandole nei propri umori, un tentativo di vista accecata di cui parla S. Agostino, l’occhio barricato alla tentazione della forma, velato perché capovolto dall’esigenza di guardarsi nell’intimo ma nello stesso tempo capace di provocare piaceri come nella Beata Angela da Foligno, nel Cristo Velato del Sanmartino, nella Simona di Bataille, nel liquido naufragare dello sguardo di Brakhage o nell’occhio-evoluzione biologica della lacrima di Grifi.

Al cinema il movimento è tempo, è un moto (del campo visivo, del corpo dell’attore ecc) che non potendo dispiegarsi in uno spazio tridimensionale esiste solo in termini di durata, di tempo richiesto dal suo compiersi. L’immagine in movimento è quindi un’immagine-tempo, un’immagine che “contiene”anche l’esperienza della durata, quella dei movimenti che ritrae, i movimenti degli attori e degli oggetti diegetici, e quella dei movimenti attraverso cui è ritratta (movimenti della mdp)

  • sbaglio a intendere Deposizione In Due Atti anche secondo un’accezione cronologica? Tanto più che nel secondo atto la studiatissima ed esasperata lentezza dei movimenti di macchina sembra suggerire che ci sia dietro un lavoro teso ad alterare la percezione cronologica, a dilatarla per via cinetica. D’altro canto tutto il lavoro sembra esprimere una temporalità altra, staccata da quella ordinaria, e tutta interna alla visione, al distendersi del tuo piano visivo, del tuo riprendere. Puoi chiarire questi aspetti?

La vista è costituita dall’occhio osservante e dall’oggetto osservato che si corteggiano sino a scambiarsi i ruoli quando la tensione cede alla passione: filmare è un insensato sfinirsi nella materia e aprirsi a ogni sentiero sconosciuto. Il desiderio si può abbozzare ma il fuoco divampa solo durante il rapporto, come in una tela di Rothko o di Licini, quando il tempo salta e non coincide con quello ‘reale’ perché qui non esiste più il ‘reale’.

  • Mi pare che la riflessione sul tempo riemerga con una certa regolarità nel tuo cinema, a cominciare dall’idea tempo come memoria implicita in Addestramento All’apocalisse. Tanto in Deposizione che in I resti di Bisanzio quest’idea del tempo si fa materia, materia entropica, segnata dalla disgregazione, una materia che sulle superfici reca una mappa del passare del tempo disegnata con graffi, scrostature, calcificazioni e decorticazioni…potremmo parlare, a rigor di logica di “materia-tempo”.

Non ho approcci didattici col tempo, del passato m’interessa l’immagine/residuo che giunge a noi. All’erta! è impregnato dell’ideologia fascista ma il film è una defecazione del passato non una sua riedificazione, come le impronte fossilizzate dei dinosauri in cui non vediamo il corpo ma percepiamo il loro atroce peso. In Sonderbehandlung i campi di concentramento riecheggiano nel filmino porno degli anni 20 la cui pellicola rovinata tortura i corpi tumefatti dei due amanti, graffiandoli e bruciandoli. Degli affreschi amo la flebile traccia di materia che resta dopo lo stupro compiuto dal tempo: qui è racchiuso tutto il cinema, una sindone materica simile all’impronta latente sul negativo che nei secoli prevarica la rappresentazione. Logorata la rappresentazione (il reale) esuma la materia.

  • E questa traiettoria temporale permette di intercettare un ulteriore tema di Deposizione, che da questo punto di vista riprende e prosegue il discorso iniziato con il tuo Notturno e proseguito con gli affreschi di I resti Di Bisanzio.

    Intanto prova a spiegarmi la valenza che assegni a queste ricorrenti pitture.

La pittura visita spesso le mie riprese: in questi giorni sto montando Eclisse senza cielo, film su Romano Sambati, esperimento di trattazione dello schermo con il linguaggio pittorico dell’artista caratterizzato dai tempi dilatati necessari alla creazione della sua opera. Tornando al secondo atto di Deposizione, ogni inquadratura è impossessarsi dell’impronta e porre un’aureola alla dignità di questi luoghi che seducono con l’intimità di Vermeer e il caos di Rauschenberg, la stratificazione di Kiefer e la crudeltà di Bacon, mentre la merda di piccione assume un valore cromatico necessario in queste tele abbandonate.

  • Questi segni lasciati dagli anni sulla materia delle cose, questi crono-segni che tracciano una mappa temporale, sono anche gli indici dell’abbandono di questi reperti estetici all’incuria del tempo, il tema della mancanza di una bellezza che prima c’era e che ora viene meno a causa di una colpevole inazione che si dipana negli anni, nei secoli.

Non è rimpianto di un’epoca non più ripetibile ma presa di coscienza della profonda ferita che mai si rimarginerà e, contemporaneamente, dell’impossibilità di far tabula rasa per ricostruire – il sogno di Ubu ne I resti di Bisanzio –. La vera bellezza non appartiene al tempo e il restauro del passato è l’ennesimo tassello conficcato nel mosaico della nostalgia. Lavorare sui residui equivale a setacciare germi di vitalità dagli energici corpi morenti, periferie di una vita concepita come eterna lotta contro la sparizione: è l’atto di resistenza alla morte insito negli uomini e nell’arte di cui parla Deleuze, atto che cancella le gerarchie tra corpi umani e architettonici.

  • gli interni scabri dell’atto secondo, invece, sono luoghi a cui la bellezza è addirittura estranea per ontologia, ricaduti fattuali di una forma del pensiero e di una società che ha smarrito, o che stà smarrendo, la pratica e l’idea stessa della bellezza.

La bellezza è sempre nell’occhio di chi guarda e a volte bisogna snidarla dai luoghi in cui lo sguardo superficiale non trova sue tracce. Mutare continuamente il punto di vista è un metodo per restar sedotti da forme, colori e odori. Il mio approccio filmico è corporeo, salta i preliminari per subire e dilatare il coito, in Deposizione mediante le estenuanti carezze sulle superfici malate: è la sospensione del coito e non la cronologia dell’atto che m’interessa. All’occhio non basta più vedere, vuol partecipare e sporcarsi nella materia come San Tommaso, avvicinarsi tanto all’immagine sino a perderne connotati e significati, è l’amplificazione di cui parla Carmelo Bene.

  • Tutto quello che avviene in questo film, avviene internamente alla materia. Materia che non è agita, ne agente, ma contemplata. Gli eventi che occorrono, la fantasmatica trama di questo film, non sono azioni ma fatti unicamente visivi, la materia come insieme di accadimenti unicamente visivi. Le sue ruggini e asperità, le levigatezze e le ruvidità, le incrostazioni, le crepe, i buchi, le linee dei contorni ecc.,trasfigurate dall’occhio meccanico della mdp, rivelano forme astratte, aggregazioni figurali e cromatiche, linee di fuga e campi di forza. La realtà per Schirinzi e pittorica, prima ancora che oggettuale?

Deposizione è una graduale cancellazione della memoria, un inno anarchico al perdersi da ‘qualche parte’ nel proprio corpo, il crollo di ogni certezza: il suono è sempre organico con l’immagine e nel primo atto, Stefano Urkuma De Santis utilizza un’antica nènia leccese scandita dalla sequenza numerica a ritroso culminante con la visione apocalittica del monte Golgota che inghiotte se stesso. La voce, rovinata da Urkuma sino all’incomprensione nel secondo atto, s’amalgama alla visione sempre più ammorbata dalla sfocatura.

  • in questo mondo prettamente fatto di immagini il movimento di macchina, diventa, con il montaggio, ovviamente, il principale strumento della narrazione, il meccanismo che permette il succedersi degli eventi visivi che costituiscono la trama, sia spostandosi entro lo spazio interno della figura, come avviene con i piccoli spostamenti laterali che nel primo atto percorrono gli affreschi murari, (delineando una sorta di fenomenologia visiva del microscopico-materico), sia muovendosi attraverso uno spazio esterno ad essa, tale da permettere un distanziamento sufficiente alla visione d’insieme.

    parlami delle funzioni che attribuisci al movimento di macchina all’interno della narrazione squisitamente audiovisiva di Deposizione in due atti.

L’occhio è irrequieto all’interno della sua orbita. In Deposizione i movimenti rapidi sono ridotti all’osso: il grano secco che irrompe con violenza e l’osservazione degli anfratti bui, il resto è uno snervante scandaglio delle superfici, come in Mammaliturchi!. Nel primo atto assistiamo a occhi increduli che guardano noi senza svelare la loro soggettiva – la prospettiva rovesciata di Florenskij –, nel secondo prendiamo in prestito queste pupille per osservare l’interno del corpo, sperimentato precedentemente in Palpebra su pietra: questo tipo di sguardo è incapace a seguire una sceneggiatura perchè è un calco sulla/nella retina di ciò che appare.

  • fronde, arbusti, spighe, steli, foglie, cieli e marine scampate al rischio oleografico salentineggiante designano una particolare attenzione per ogni sorta di elemento naturale e, letti in prospettiva, creano una sorta di isotopia intertestuale sul tema “natura”che si si dispiega da Natura Morta In Giallo, passando per I Resti Di Bisanzio e approda ai prologhi ai due atti di Deposizione.

Della natura mi attraggono le membra scomposte non il corpo illeso, una sorta di feticismo della disintegrazione. In Eclisse senza cielo i pochi spazi naturali saranno quelli presenti nei dipinti. In Suite Joniadriatica, Prospettiva in fuga e Mammaliturchi! la natura maligna esplode a tutto campo nelle inquadrature del mare, ne I resti di Bisanzio i cieli infuocati, mai cullati dall’orizzonte, e i mari bui gravano sulle esistenze dei protagonisti, Natura morta in giallo sussurra che non si può morire.

  • sempre in Natura Morta In Giallo emerge un’attenzione per il lavoro artigiano, per i saperi manuali, che ritroviamo nelle minuziose scene di artigianato di I Resti Di Bisanzio…

Il lavoro artigiano è un atto d’amore nei confronti della materia grezza che delicatamente è accompagnata allo stadio adulto attraverso la costruzione del manufatto. Don Tonino Bello ne La carezza di Dio fa un’apoteosi del gesto di Giuseppe che accarezza il legno dopo ogni colpo di pialla. L’attività di falegname di mio padre mi ha trasmesso questa passione: i filtri analogici che costrisco (lenti, vetri, plastiche, ottiche) svelano effetti che nessun software di editing può eguagliare. È la stessa passione che animava i mastri sperimentali ma anche certi b-movie italiani degli anni 60 e 70 quando la visione non era mai subordinata alla storia, penso a La Donna del lago di Bazzoni-Rossellini, o BabaYaga di Farina, o altri in cui l’immagine non cede mai il passo al testo, come L’ultimo uomo sulla terra, La frusta e il corpo, L’amante del vampiro, Una lucertola con la pelle di donna.