Il 9 di settembre del 1566 Pio V compie un gesto all’apparenza inaspettato per un ex inquisitore che, da Papa, avrebbe poi legato per sempre il suo nome alla vittoria nell’ultima crociata di Lepanto: concede la cittadinanza romana, e quindi la libertà, a tutti quegli schiavi che, una volta ricevuto il battesimo, si fossero presentati in Campidoglio a farne richiesta.

Oltre a ricostruire per la prima volta la storia di queste emancipazioni, il libro di Serena Di Nepi I confini della salvezza Schiavitù, conversione e libertà nella Roma di età moderna (Viella, pp. 252, euro 28,00) mostra come esse si inserissero invece con grande coerenza nel progetto, perseguito con determinazione da Pio V, di fare della città santa di Roma uno spazio eccezionale e irripetibile di redenzione e riscatto, che solo a chi ne riconosceva la supremazia concedeva il privilegio della libertà.

Già, perché nella Roma del Cinquecento quello della libertà non era un diritto con cui tutti nascevano, ma un privilegio che in molti si trovavano a dover negoziare. Di questo privilegio volle godere circa un migliaio di persone, finché nel 1798 anche nella città del Papa le baionette francesi aprirono, provvisoriamente e pur tra mille contraddizioni, un’èra ben diversa: l’èra appunto dei diritti.

Noi siamo abituati a rimuoverla dal nostro immaginario nazionale, pensandola come un fenomeno tipico dei paesi coinvolti nella tratta atlantica, ma la schiavitù era una pratica perfettamente normale e anzi molto frequente nell’Italia pre-unitaria, compreso lo Stato della Chiesa.

Certo, a Roma si liberavano gli schiavi convertitisi al cristianesimo, ma ciò non impediva in alcun modo alla marina pontificia di armare la propria flotta proprio grazie all’afflusso continuo di forzati musulmani, razziati nella guerra di corsa che infestava il bacino del Mediterraneo (i pirati barbareschi facevano, beninteso, la stessa cosa).

È problematico, dai pochi dettagli segnati nei registri della Camera capitolina, ricostruire il profilo di questi individui, che spesso si presentano di fronte all’autorità da soli e per la maggior parte dei quali non si conosce nulla sul contesto di provenienza.

Ma già la loro solitudine e poi il fatto che spessissimo i loro corpi fossero segnati da ferite e cicatrici – tutte infallibilmente registrate, in un’epoca in cui non esistevano sistemi di identificazione più sofisticati – ci fanno pensare che avessero alle spalle storie di fughe piuttosto tormentate.

Il libro ricostruisce con tenacia premiata da successo molte di queste storie, inseguendo le vite di questi schiavi liberati (quasi esclusivamente maschi) attraverso uno spazio che, da Roma, si allarga al Mediterraneo e da lì si spinge fino all’Africa subsahariana e alla Corea.

Si esce dalla lettura con la sensazione di aver finalmente recuperato un pezzo del nostro passato che, forse anche per quella volontà di rimozione di cui si diceva, non era mai entrato nel puzzle della storia d’Italia. Eppure, quello descritto in questo libro è un meccanismo che non ha mai smesso di funzionare, nemmeno oggi che libertà e cittadinanza appaiono sempre e comunque subordinate all’accettazione della visione del mondo della maggioranza e all’iniziativa graziosa del potere costituito.

I fili che si intrecciano tra Roma e le periferie del cattolicesimo globale dell’età moderna intorno al chiodo delle conversioni sono il Leitmotiv anche del libro di Vincenzo Lavenia, Sabina Pavone e Chiara Petrolini, Sacre metamorfosi Racconti di conversione tra Roma e il mondo in età moderna (edito sempre da Viella, pp. 540 + 40 ill. col., euro 59,00).

Qui i protagonisti sono i testi prodotti da quei processi di conversione messi in moto dall’espansione missionaria della Chiesa cattolica nell’epoca della mondializzazione iberica. Una volta raccolti – e manipolati – dai missionari, quei racconti confluirono da tutto il mondo verso la capitale del cattolicesimo. A differenza che nel libro di Serena Di Nepi, dove le fonti ci dicono molto sulla macchina giuridica ma poco sui singoli ingranaggi, qui abbiamo quasi un embarras de richesses di fronte alla moltitudine e alla vivacità delle storie di cui brulica il libro.

Naturalmente quello dei racconti di conversione è un genere letterario con le sue regole e i suoi scopi – è proprio in questo contesto che, con la congregazione di Propaganda fide, nasce una forma, appunto, di propaganda, che è ancora per buona parte la nostra. Però, a saperli depurare dalle loro incrostazioni edificanti, come fanno con maestria i tre autori, questi racconti sono una risorsa preziosissima per lo storico che, come l’orco della fiaba a cui amava paragonarlo Marc Bloch, dove fiuta carne umana là trova la sua preda.

Anche nelle Sacre metamorfosi (l’immagine è ripresa dall’opera omonima dell’oratoriano Girolamo Bascapè) gli schiavi sono al centro dell’attenzione: a figure come lo schiavo islamico Ametir, che nella Napoli del 1632 si converte per aver visto «chillo Dio piccirillo» occhieggiargli dalla culla di un presepe, è dedicato infatti il primo dei nove capitoli che compongono il libro e che squadernano davanti agli occhi di chi legge una variegata umanità di convertiti – e convertite (qui le donne sono infatti moltissime).

Partendo dall’alto, si comincia incontrando principesse e principi, veri o presunti: chi, dopo aver letto il libro, potrà dimenticare la figura di Zaga Christ, una celebrità nella Francia di Luigi XIII, dove si fa passare per re di Etiopia finché la marchesa di Rambouillet non deduce dal tatuaggio sopra il suo sopracciglio – ecco un altro corpo parlante – che si tratta invece di uno schiavo? E poi soldati e ambasciatori, gente che si converte in punto di morte (i condannati) o sceglie la morte per testimoniare la propria conversione (i martiri) e tanti, tantissimi bambini, come quelli battezzati in punto di morte e poi disegnati in mezzo a piante lussureggianti dal carmelitano Matteo di San Giuseppe, missionario e botanico tra il Malabar e il Gujarat.

Anche in questo caso il libro è frutto di uno scavo archivistico durato anni, a cui si sono aggiunti attrezzi presi da cassette di altri mestieri rispetto a quello dello storico: quelli del critico letterario o dello storico della lingua, per analizzare i codici narrativi sottesi ai racconti di conversione e la molteplicità di lingue in cui, come la glossolalia degli apostoli dopo la discesa su di loro dello Spirito Santo, si esprimono questi nuovi cristiani; ma l’aspetto forse più originale è il modo in cui nel libro vengono fatte interagire immagini e parole.

Le fonti iconografiche non sono qui semplici integrazioni dei racconti, ma a volte li generano. È il caso appunto dei ritratti, firmati in una pluralità di alfabeti, dell’impostore Zaga Christ, o delle torture inflitte agli schiavi maltesi che si rivoltarono nel 1749, o ancora di una scrittura esposta come la lapide tombale che i genitori adottivi di un bambino nordafricano fatto schiavo all’età di due anni fecero murare nel 1772 nella cappella della Santissima Trinità di Collepasso, vicino a Lecce, dove era stato battezzato: «bambino dolcissimo e di grandi speranze, ridotto in schiavitù all’età di due anni, per la sua intelligenza vivace e per la prontezza ad apprendere lo adottarono e colmarono di amore i nobili coniugi, signori di Collepasso, Carlo Leuzzi e Maria Contarini, discendente dei dogi di Venezia»: gli stessi dogi che per secoli avevano costruito la loro ricchezza e il loro potere sul commercio di uomini e donne di origine slava che avevano finito per dare il nome stesso alla condizione di schiavo.