Schegge della città perduta e ritrovata da John Banville
Scrittori irlandesi «Dublino. La città nel tempo», da Guanda
Scrittori irlandesi «Dublino. La città nel tempo», da Guanda
Originario di Wexford, cittadina un po’ più a sud di Dublino, sulla stessa costa che guarda verso la Gran Bretagna, John Banville ha un rapporto complesso con la capitale: quando era bambino, ogni 8 dicembre gli veniva concessa una gita per raggiungerla – racconta nel suo «quasi-memoir» accompagnato dalle foto di Paul Joyce, Dublino La città nel tempo (traduzione di Irene Abigail Piccinini, Guanda, pp. 224, € 24,00) – e la città era per lui, allora, nonostante lo squallore degli anni Cinquanta, una meta favolosa. In inglese il titolo suona Time Pieces, alludendo alla natura rapsodica e proustiana di queste pagine, che dunque riportano non tanto a una storia sistematica di Dublino, quanto al resoconto di una flânerie, che intreccia ricordi e tempi diversi: il piccolo e entusiasta John entrò da bambino nelle stesse case e nelle stesse vie ripercorse oggi dall’ormai anziano scrittore irlandese, che torna fra l’altro al suo innamoramento giovanile per una misteriosa Stephanie, la donna che spesso lo accompagnava in un parco semi-nascosto (lo splendido Iveagh Gardens, a due passi da Stephen’s Green, nel centro della città). Mentre i piani temporali si intrecciano, lo scrittore si ritrova a domandarsi quand’è che il tempo ha virato così da potersi chiamare «passato».
In molte delle sue esplorazioni, Banville viene scortato da un enigmatico amico che gli fa da guida, dotato di una spider rossa: si chiama non a caso Cicero, e la sua dimestichezza con i trascorsi storici e artistici di Dublino, e persino ai pettegolezzi della città, consente a Banville, che lo usa come stratagemma narrativo, di diffondersi in digressioni riguardanti dettagli disparati – dalla storia degli edifici georgiani, fino alla scoperta delle rovine della città, dalla testa mozzata dell’Ammiraglio Nelson alla facciata dell’Abbey Theatre, smontata e conservata nella joyciana Vico Road.
La Dublino degli anni Cinquanta, aveva fatto da sfondo a altre opere di Banville, in particolare ai gialli pubblicati con il nom de plume Benjamin Black, ambientati in quel decennio, quando la città era avvolta nelle atmosfere losche e brumose che si addicono al noir. In queste pagine più recenti, invece, i toni ironici si alternano agli abbandoni elegiaci. Se da buon narratore irlandese Banville trova sempre l’aneddoto curioso e un po’ sfacciato, d’altro canto sembra soverchiato dai ricordi e dalla malinconia: nelle sue pagine sfilano le immagini perdute dei vecchi pub con le lampade a gas e quelle che gli ripresentano le vecchie case georgiane, poi sventrate da palazzinari senza scrupoli. Disposte in modo da suggerire piste alternative a chi già conosce la città, le splendide foto di Paul Joyce sembrano assecondare il desiderio di Banville di sviare l’attenzione, a volte nascondendosi al lettore altre volte rivelandosi con disarmante onestà. Ma soprattutto viene all’evidenza il tipico desiderio del romanziere di spremere l’essenza della vita da quei particolari insignificanti che «s’imprimono nella memoria con incongrua vividezza e nitore». Sono dettagli che già nella Lettera di Newton (1982) Banville associava ai polizieschi, ben prima di sdoppiarsi in Benjamin Black. Ora, la sua passeggiata per le strade e le case di Dublino sembra alludere a una manovra di avvicinamento delle due anime dello scrittore – l’artista Banville e, il da lui definito «scrittore di mestiere», ovvero Black: la copertina, infatti, riproduce la medesima stradina lastricata sotto il passaggio ad arco che venne scelta per illustrare Dove è sempre notte, il primo romanzo firmato Benjamin Black: ma qui, il passante ritratto di spalle è, indubbiamente, l’uomo che conosciamo con il nome di John Banville.
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