Schedati sui social, la «proposta indecente» di Marattin
Si scatena il dibattito in rete intorno al progetto del deputato di Italia Viva: chiedere i documenti per l'iscrizione ai social. Ma gli esperti sono contrari.
Si scatena il dibattito in rete intorno al progetto del deputato di Italia Viva: chiedere i documenti per l'iscrizione ai social. Ma gli esperti sono contrari.
Nel cinquantesimo compleanno di Internet è arrivata come una bomba una proposta che ha animato il dibattito in rete. Ad avanzarla, su twitter, il renziano Luigi Marattin: obbligare chiunque si iscriva a un social network a fornire un documento valido di identità. L’obiettivo sarebbe quello di prevenire hate speech, diffamazioni e i messaggi minatori che proliferano sulle piattaforme. Il deputato di Italia Viva ha annunciato di essere già al lavoro su una bozza legislativa e poche ore dopo ha diffuso anche il link a una petizione sul sito del neonato partito, con l’obiettivo di raccogliere 10.000 firme.
La crociata di Marattin non è un’impresa solitaria. Il giorno precedente il regista Gabriele Muccino aveva twittato sulla necessità di approvare una legge di contrasto all’anonimato online. Ancor prima, domenica sera in prima serata su Rai 1, ospite al programma domenicale di Fazio, la cantante Emma Marrone aveva lanciato un accorato appello alle istituzioni: «Noi artisti per avere il bollino blu che attesta che non siamo dei fake siamo costretti a mandare una lunga serie di documenti personali, perché non estendere questa pratica a tutti?». Anche nel mondo della politica Marattin ha trovato numerosi sostenitori, alcuni dei quali avevano già aperto la strada a un intervento legislativo in questa direzione. In primis Andrea Ruggieri, deputato di Forza Italia, che qualche mese fa aveva depositato alla Camera un disegno di legge dal contenuto affine, sottoscritto anche da alcuni deputati del Pd. Non solo, il premier Conte aveva espresso due giorni fa la necessità di porre un freno normativo ai messaggi di odio sul web, dopo il caso delle centinaia di insulti antisemiti alla senatrice a vita Liliana Segre. Anche la senatrice del Pd Monica Cirinnà, recentemente vittima di insulti sessisti, si era espressa a inizio settimana sull’urgenza di «rendere obbligatoria l’identità web».
Oltre ai consensi del mondo dello spettacolo e della politica, però, sul fedelissimo di Renzi sono piombate nelle scorse ore anche una valanga di critiche. Diversi i pareri negativi degli esperti del digitale, tra cui spiccano su twitter quelli del co-fondatore di Arduino (innovazione tecnologica nel campo degli hardware brevettata nel 2003) Massimo Banzi e quello di Fabio Chiusi, professore ed esperto di Nuovi Media, che cita lo Special Rapporteur ONU per la libertà di espressione, David Kaye, sulla tutela dei diritti umani in rete. Lapidario anche il professore dell’Università di Milano Giovanni Ziccardi che, dal sito del Fatto Quotidiano, ha definito la proposta una «sparata inapplicabile».
Le polemiche, anche aspre, sono state integrate come spesso accade dallo humour. Con l’hashtag #cinemarattin infatti ha avuto luogo una sfida all’ultimo tweet sulle rivisitazioni in chiave sarcastica dei titoli dei film più celebri, a tema «anonimato sui social». Inoltre poche ore dopo il lancio della petizione online sul sito di Italia Viva in molti hanno fatto notare che il format di sottoscrizione non richiedeva il documento, era dunque possibile firmare con successo la proposta a nome di Napoleone Bonaparte.
Nel merito i dubbi sulla proposta del deputato sono innanzitutto di natura tecnica. Diversificare l’accesso a delle piattaforme internazionali creerebbe un dislivello tra paesi, e quindi tra utenti, difficile da gestire. Basterebbe infatti iscriversi a un social da un paese estero per vanificare il proposito della normativa. Inoltre, come molti hanno fatto notare, la reperibilità sul web esiste già. In caso di accertamento di un reato commesso online, infatti, e in presenza di una rogatoria, è già possibile, tramite l’identificazione dell’indirizzo IP, risalire all’indirizzo postale dal quale il reato è stato commesso. Eppure nel caso degli insulti razzisti, sessisti e dell’incitamento all’odio queste misure non vengono attuate.
Ma le perplessità sull’idea di schedare gli utenti social non sono solo tecniche. L’anonimato infatti è una delle caratteristiche del mondo digitale che ha contribuito maggiormente a rendere la rete uno spazio di libertà. Basti pensare alla funzione dei social network e del microblogging anonimo nei regimi politici oppressivi. Non si tratta solo dei casi più estremi di dittature totalitarie, la libertà di espressione rimane a rischio nella maggior parte dei paesi del mondo, ed è soggetta ad improvvise restrizioni in seguito a cambiamenti politici, come nei casi più prossimi della Turchia di Erdogan o dell’Ungheria di Orbán. Esemplare è anche la recente legge introdotta dall’esecutivo Trump, che impone a chi voglia soggiornare negli Stati Uniti per più di 90 giorni di dichiarare le proprie identità social utilizzate nei precedenti 5 anni. La misura, inserita al fine di agire un controllo capillare sull’immigrazione, ha suscitato la preoccupazione dell’American Civil Liberties Union, perché ritenuta lesiva della privacy e della libertà di parola.
Non solo, l’anonimato garantisce a molte persone di poter esprimere la propria opinione senza subire il ricatto, ad esempio, dei propri datori di lavoro, o evitando di subire il giudizio discriminatorio o le persecuzioni di conoscenti o familiari. Si pensi ad esempio all’uso delle piattaforme da parte delle soggettività LBGTQ+ che ha permesso di rompere l’isolamento a persone che non sempre godevano della possibilità di potersi esporre pubblicamente. Lo stesso vale per i casi di molestie e violenze cosi come per tante altre situazioni in cui l’anonimato in rete rimane una tutela fondamentale. Al contrario basta una rapida occhiata su commenti facebook ai post di alcuni politici italiani e internazionali, per vedere come spesso insulti, minacce ed espressioni di odio siano elargiti da account ben provvisti di nome, cognome e foto. Per non parlare dei messaggi violenti e discriminatori che vengono emessi dalle stesse figure istituzionali che sarebbero chiamate ad approvare una legge contro l’hate speech.
Contrastare la violenza digitale è indubbiamente un proposito condivisibile. Gli strumenti per farlo possono essere molti e spesso controversi, come la censura dei contenuti delegata alle piattaforme e alle loro intelligenze artificiali. In ogni caso difficilmente si può prescindere da un’azione congiunta tra legislatori, esperti e utenti (in particolare le minoranze più a rischio nelle loro forme autorganizzate). Una questione così attuale e complessa dovrebbe però partire da un’analisi molto profonda, e poco auto-assolutoria, dell’etica sociale e politica che contribuiamo ogni giorno a costruire.
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