Nei confronti della Storia il cinema ha un ruolo ambiguo: può farsi strumento di manipolazione o, al contrario, di svelamento e verità. Nella grana dell’immagine si depositano tracce di presenze, restano impigliati destini che possono rimanere muti e sommersi dall’oblio oppure riemergere dalle acque del tempo attraverso ricordi personali e percorsi di ricerca. Il documentario Nelly & Nadine di Magnus Gertten nasce proprio dalla trasformazione di un’immagine in documento e testimonianza, in crocevia di vissuti. Dopo aver conquistato un premio Teddy all’ultima Berlinale, è stato proiettato al CPH:DOX di Copenaghen ed è giunto in questi giorni sugli schermi del festival Lovers di Torino (ex Da Sodoma a Hollywood).

È la storia d’amore straordinaria tra due donne, Nadine Hwang e Nelly Mousset-Vos, attraverso le tormente del Secolo breve, tra guerre, dittature, persecuzioni, migrazioni. A famiglia e amici le due dicevano di essersi conosciute alla fine del secondo conflitto mondiale a Bruxelles ma il loro primo incontro risale a qualche tempo prima, quando entrambe erano internate nel campo di Ravensbrück. È da lì che parte la loro vicenda così come il lungo viaggio cinematografico di cui il film Nelly & Nadine è la tappa più recente.

Tutto inizia con Harbour of Hope (2011), documentario in cui Gertten ricostruiva l’operazione di accoglienza in Svezia di migliaia di persone sopravvissute ai campi di concentramento e sterminio nazisti per alcuni mesi del 1945. Esiste un filmato realizzato il 28 aprile 1945 che documenta lo sbarco nel porto di Malmö di una nave della Croce Rossa con a bordo donne e bambine reduci dai lager. Colpito da quei volti che con lo sguardo in camera sembrano richiamare attraverso il tempo a un dovere di memoria, il regista ha intrapreso un tentativo di ridare a ciascuno un nome e una storia. Così è nato il secondo film dedicato a quella vicenda, Every Face Has a Name (2015). Dopo alcuni anni, solo alcune delle persone sono identificate e dunque il documentario non si risolve in se stesso ma, attraverso un sito internet (everyfacehasaname.com) e una ricerca di testimonianze anche via social, sollecita chi abbia documenti o informazioni a portare il proprio contributo. In quella sequenza di repertorio appare un viso che interroga più di altri: una donna dai tratti orientali con ancora addosso la divisa di prigionia.

Grazie all’ormai anziana Irene Krausz-Fainman, che nella sequenza appare bambina, la donna viene identificata: è Nadine Hwang, nata a Madrid nel 1902 da madre belga e padre diplomatico cinese. Aveva vissuto tra Asia ed Europa, studiato legge, pilotato aerei, era stata addirittura colonnello dell’esercito nonché celebre socialite nelle cerchie intellettuali del vecchio continente dove la stampa l’aveva soprannominata «Giovanna d’Arco cinese». Probabilmente era stata deportata per attività di spionaggio e opposizione al regime nazista benché non fosse in nessun circuito organizzato. Nel campo, aveva fatto amicizia con la madre di Irene permettendole di salire con la bambina su uno dei «bus bianchi» verso la Svezia invece che sui convogli la cui destinazione si rivelerà essere Bergen Belsen. «Se un giorno tua figlia dovesse sposarsi e avere una bambina, vorrei che la chiamasse Nadine». Irene, che oggi vive in Sudafrica, ha mantenuto la promessa.

Ma le ricerche di Gertten si sono ulteriormente sviluppate. Dopo la proiezione di Every Face Has a Name all’IDFA di Amsterdam, è stato contattato da una donna venezuelana residente a Parigi, Alexandra Lovera, il cui padre era stato molto amico di Nadine Hwang negli anni Sessanta. I suoi ricordi e archivi hanno permesso di aggiungere tasselli nuovi alla vicenda e ulteriori ne sono arrivati quando il regista ha conosciuto Sylvie Bianchi, una delle nipoti del grande amore di Nadine, Nelly Mousset-Vos.

Nelly era stata una cantante lirica di fama internazionale. Durante la guerra si era impegnata nella resistenza, cosa che al termine del conflitto le varrà cinque medaglie al valore. La Gestapo l’arresta nell’aprile del 1943 mentre è a Parigi per un concerto e nel maggio del 1944 viene deportata a Ravensbrück, dove la notte di Natale, cantando in una baracca, conosce la sua «Madama Butterfly». I loro destini si separano quando Nelly viene trasferita a Mauthausen. Fortunatamente, entrambe sopravvivono al campo ma senza notizie l’una dell’altra finché nel 1946 si ritrovano, non si sa come, a Bruxelles. Allora Nelly lascia marito, amante e figlie e vola con Nadine in Venezuela per costruire con lei una vita nuova. Oggi, il film Nelly & Nadine ricostruisce la loro storia accompagnando la nipote di Nelly, Sylvie Bianchi nelle ricerche.

Le ci è voluto molto tempo per vincere la reticenza che nasce dalla nostalgia e da quel dolore per le violenze patite nei campi che dalla nonna si è tramandato fino a lei. L’antenata ha lasciato dietro di sé un baule pieno di ricordi che Sylvie non è mai riuscita a esplorare se non superficialmente. Il documentario gliene fornisce l’occasione e il coraggio: vengono fuori fotografie, lettere, diari, documenti e bobine di filmini privati. Il film si fa strada tra questi materiali che intreccia con repertori, scene da Symphonie Paysanne di Henri Storck (1942-44), riflessioni, ricordi lacunosi, omissioni, domande senza risposta, agnizioni che rovesciano le percezioni consolidate.

Da bambina, Sylvie andava a Caracas regolarmente a trovare la nonna e la sua «amica»; passava del tempo con loro, amava la casa in cui abitavano ma sapeva poco del loro passato. Quando scopre che Nadine negli anni Trenta a Parigi aveva fatto parte della cerchia di Nathalie Clifford Barney e del suo salotto letterario di Rue Jacob, entra in contatto con la studiosa Joan Schenkar che le chiede: «in tutti gli anni in cui tua madre ti portava a trovare la nonna a Caracas non ti è mai venuto in mente che quelle due erano innamorate?». Quali vite e quali amori sono degni di diventare Storia? Quali lutti possono essere pianti pubblicamente? Queste domande sono risuonate forti e tragiche a più riprese nella storia della comunità queer e il film è in fondo un modo per porsele ancora. È da questa prospettiva che ci rendiamo conto di quanto ancora si possa dire di un passato che sembrava ormai ampiamente scandagliato.

Le lacune e i silenzi sono tanto più impressionanti in questa vicenda quanto inconsueto per qualità e quantità è invece il materiale autobiografico, fotografico, filmico, sonoro lasciato dalle due donne. Gertten si sofferma su alcune scene dei loro filmini in super8: in uno la coppia conduce un amico in giro per il salotto di casa e casualmente le mani delle due donne si accarezzano in un gesto di erotica complicità. In un’altra, Nelly osserva un paesaggio di vacanza, il suo sguardo si rivolge con tenerezza e sensualità alla compagna dietro la macchina da presa. Il documentario coglie, dunque, anche il modo in cui Sylvie ormai avanti con gli anni cambia il suo modo di guardare quelle presenze che credeva di conoscere, apre gli occhi sul loro rapporto e sulla propria cecità.

Nelly e Nadine decidono di tornare in Belgio alla fine degli anni Sessanta quando Nadine si ammala. Morirà nel 1972 e Nelly le sopravviverà fino al 1985 lasciando alla nipote Sylvie l’eredità di un racconto da donare al mondo: un archivio di sentimenti e documenti che ha aspettato molto tempo prima di essere scoperto e reso noto.

Resta inedito e parzialmente rosicchiato dai topi, il romanzo che le due vollero scrivere a quattro mani per testimoniare le traversie del loro amore a futura memoria.

Chi cercasse qualche dettaglio ulteriore sulla vita di Nadine Hwang trova un testo in tre parti in lingua francese sul blog Les Faunesses di Hélène Héra (www.helenenera.com/les-faunesses).