Scenari di intrepida giovinezza al Torino Film Festival
Cinema Da «Le Lycéen» di Christophe Honoré a «Plein Sud» di Sébastien Lifshitz, un itinerario tra i titoli di quest'edizione
Cinema Da «Le Lycéen» di Christophe Honoré a «Plein Sud» di Sébastien Lifshitz, un itinerario tra i titoli di quest'edizione
Ritratto crudele (ed estatico) della giovinezza – l’ambage del sesso; il vedere venire la morte; il velo di lacrime, il tentativo di frapporre qualcosa, mettere uno sbarramento tra gli occhi e questo vedere venire; l’insostenibile enigma dell’amore – che corona nelle Notti selvagge di Cyril Collard (film davvero selvaggio, frenetico, sovraccarico: non un tempo morto), riproposto, restaurato a trent’anni dall’uscita; il Torino Film Festival di quest’anno ha dedicato molte delle sue visioni a questa tematica, a quest’età inquieta, e non sarebbe potuto essere diversamente: è lì, nella giovinezza disperata e fiammaggiante, che s’inscrive il codice genetico del cinema, la vita, a ogni costo. Che è anche la filigrana del nuovo film di Sam Mendes, in cui il destino della gioventù s’intreccia strettamente a quello del cinema. Due film interessanti di due registe non acquiescenti a certa retorica femminile: Rodeo di Lola Quivoron, intriso di realismo fiammante (in odore di benzina, di fumi scappati da moto impennate) e Palm Trees and Power Lines di Jamie Dack, che ha un finale bellissimo per quanto doloroso: le conseguenze dell’amore, di quello che si credeva amore e invece era avvio alla prostituzione.
MA FORSE il film più bello a proposito di giovinezza presente a Torino è Le Lycéen (Winter Boy) di Christophe Honoré, film d’amore, di morte, di resistenza alla vita (resistenza della vita) da parte di Lucas, un ragazzo di diciassette anni alle prese con la scomparsa improvvisa del padre in un inverno di cui lo sguardo di Honoré fa sentire tutto lo spessore, il peso, proprio in termini atmosferici, aerei. La macchina da presa segue traiettorie nervose (qualcosa di simile a un altro splendido film «suicidario», Plein Sud di Sébastien Lifshitz: tutta una vita in quanto elaborazione della morte del padre: film ormai archetipico in questo senso), che sono i codici di un adeguamento dei corpi (soprattutto quello di Lucas) allo spazio fremente, alla luce invernale, inquieta per via di strati slavati nuvolosi, lasciando presagire eventi, transiti, risoluzioni; lanciando presagi, attraverso le aperture atmosferiche dell’immagine.
IL PESO dell’inverno; il dramma dell’inverno; l’ombra dei presagi; ma anche la leggerezza improvvisa emanata dall’irrequietezza dello sguardo di Honoré (correlativo dell’irrequietezza del protagonista, della sua sponteneità e imprevedibilità, dei suoi scatti improvvisi) quando Lucas si trasferisce a Parigi e condivide per un po’ l’appartamento con il fratello: la scena comica in cui suo fratello appunto, Quentin, lo sorprende beatamente prono in attesa che un uomo (pagante per la prestazione sessuale) lo penetri. O, modulando ancora i registri (tra dramma, commedia, melò, con una rara libertà, ariosità della macchina da presa), lo struggimento, la delicatezza dell’amore verso Lilio sublimato perfettamente in Conchiglie di Laszlo De Simone, che probabilmente è l’antifona di questo film bellissimo: «siamo solo conchiglie/ sparse sulla sabbia/ niente potrà tornare/ a quando il mare era calmo».
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