Scavare nelle storie e tra i volti
Vita con fotoreporter Nel carcere di Bollate e in un centro per l’interruzione della gravidanza con Emanuela Balbini
Vita con fotoreporter Nel carcere di Bollate e in un centro per l’interruzione della gravidanza con Emanuela Balbini
Fra gli anni Cinquanta e Settanta i rotocalchi italiani arrivarono a vendere fino a 20 milioni di copie. Significa che quasi la metà del Paese comprava una rivista illustrata. Il segreto di quel periodo d’oro sta proprio in quel «illustrata». Fu l’attenzione alla fotografia a far arrivare anche in Italia una tendenza già in corso all’estero con «Life», «Stern», «Paris Match». Al reportage e al particolare supporto di lavoro fra giornalista e fotografo sono dedicati i quattro racconti della serie «Vita con fotoreporter». Partendo dalle proprie esperienze con vari fotografi, da Uliano Lucas a Luigi Baldelli, da Francesco Cocco a Emanuela Balbini, da Stefano Schirato a Marcello Bonfanti, da Alex Masi a Franco Guardascione, Mariangela Mianiti racconta l’unicità del legame che si crea fra reporter e fotoreporter. È una relazione di lavoro che, date le condizioni spesso difficili in cui si svolge e gli imprevisti che si incontrano, può dare due esiti: o ci si detesta, o ci si stima e si diventa amici. La seconda opzione è, per fortuna, più frequente e ha creato coppie come Mario Dondero e Paolo Pernici, Luigi Baldelli e Ettore Mo. Con il racconto odierno si conclude il ciclo, le puntate precedenti sono uscite il 30 luglio, 7 e 13 agosto.
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Ci sono due tipi di reportage: quello su luoghi ed eventi, quello che scava nell’intimo delle persone. Se entrambi richiedono sensibilità e attenzione, il secondo è particolarmente insidioso perché più esposto al rischio del tradimento. Si può tradire il lettore dandogli un’immagine parziale o distorta, per le stesse ragioni esiste il pericolo di tradire il soggetto raccontato. Avvicinarsi con un fotografo a qualcuno, sapendo che poi lo si esporrà su un giornale, è come muoversi su un confine sottile. Da una parte è necessario creare fiducia, dall’altra bisogna lasciarsi coinvolgere mantenendo la giusta distanza. È come avere un doppio sguardo, uno che scava dentro, l’altro che osserva da fuori in una sorta di sdoppiamento che si affina con l’esperienza. In questi casi il fotoreporter deve essere in sintonia sia con il giornalista che con il soggetto da fotografare, deve cogliere l’attimo significante e il contesto senza che il tutto sia o sembri in posa.
CARCERE di Bollate, luglio 2006. Abbiamo avuto l’autorizzazione di entrare e documentare il lavoro di criminologi, psicologi e terapeuti del CIPM (Centro italiano per la promozione della mediazione) con i sex offender. Si tratta di un progetto che mira a recuperarli per ridurre la recidiva una volta usciti dal carcere. In quel periodo a Bollate il gruppo del CIPM è composto da dodici persone di cui quattro donne, un unicum in Italia. La fotoreporter che mi accompagna è Emanuela Balbini. Abbiamo già lavorato insieme all’incontro con due sorelle adolescenti, Basma e Basant, di origine egiziana che vivono a Milano. La loro era stata una storia delicata da trattare perché i genitori avevano voluto assistere all’intervista che ruotava attorno al modo in cui le due ragazze vivevano i contrasti fra le proprie tradizioni e la cultura occidentale. Solo una della due aveva accettato di farsi fotografare, quella con il velo. Le foto di Emanuela ritraggono una ragazza sorridente. Il contrasto dei suoi desideri si legge nel velo bianco che copre il capo e la felpa nera con su scritto, in rosso, ROCK.
Se con Basma e Basant io ed Emanuela ci siamo mosse sotto il controllo di un padre, a Bollate abbiamo a che fare letteralmente con le sbarre di un carcere. Qui non possiamo intervistare né fotografare i detenuti che seguono il progetto, ma parlare del lavoro del CIPM, di che cosa significa per quattro donne entrare qui ogni giorno e curare, guardare negli occhi chi ha abusato, picchiato, violentato una donna o un bambino. Bisogna anche trovare un’immagine emblematica che mostri la durezza della situazione e insieme le potenzialità del progetto. Emanuela trova lo scatto perfetto. Mette le terapeute sulla soglia di un cancello interno, le porte sono aperte, ma la grata le circonda. Quattro donne belle e sorridenti sulla porta interna di un carcere, l’emblema del genere offeso che crede nella potenzialità del recupero. Quella foto mette insieme la complessità di un fenomeno e diventa l’apertura del servizio. In seguito io ed Emanuela documentiamo la difficoltà di ricorrere all’interruzione di gravidanza per il crescente numero di obiettori di coscienza e incontriamo uno dei pochi ginecologi che a Milano praticano l’IVG. Anche in questa occasione Emanuela trova un’immagine delicata e scioccante insieme: al di là di una porta aperta si vede una sala operatoria da cui compaiono le gambe di una donna distese e divaricate su un lettino, in attesa dell’intervento. Si vedono solo le gambe e alcuni strumenti medici, doppio gioco sulla difficoltà di una scelta e un oscurantismo di ritorno. Anche quella foto apre il servizio. In un altro caso la sensibilità di Emanuela è riuscita a estrarre il senso profondo di una vita con un prima e un dopo. È la storia di Ada che, per salvarsi la vita, si è strappata dalla propria terra, dalle figlie e dagli affetti per rifugiarsi in una casa delle donne maltrattate. Emanuela ritrae le mani di Ada appoggiate in grembo, mani vissute e curate, che hanno amato e cresciuto le figlie, che si sono difese e ora cercano un destino diverso.
UNO DEI CASI più problematici da raccontare è stato quello di un transgender che da uomo stava diventando donna e aveva una figlia. Aveva accettato di incontrarci con la ragazza che, essendo minorenne, andava fotografata senza renderla riconoscibile. Lui/lei era un ex ufficiale dell’esercito che da anni si sottoponeva a cure ormonali e operazioni per ingentilire il corpo da marcantonio che non sentiva suo. La figlia era una quindicenne che si ritrovava con un padre che stava trasformando il proprio aspetto senza aver mutato il suo affetto di genitore. C’era da raccontare l’estrema complessità di una situazione partendo anche da cose apparentemente banali. Quella figlia come avrebbe chiamato suo padre? Per nome o avrebbe continuato a definirlo papà? E come reagiva la gente vedendoli insieme? Cosa le dicevano i compagni di scuola? E lui/lei aveva sensi di colpa nei confronti della figlia? Come le aveva raccontato il suo percorso? Come si presentava agli amici di lei? Andai a incontrarli a Roma con il bellissimo Marcello Bonfanti e lì si produsse un corto circuito che non avevamo previsto. Passeggiando per villa Doria Pamphili ci accorgemmo che il/la nostra interlocutrice si stava invaghendo del fotografo. Vi immaginate il casino nel quale ci stavamo muovendo? Eravamo lì a intervistare un’adolescente e suo padre che stava diventando donna e che faceva gli occhi dolci al fotografo, gay, il quale non era per nulla interessato a quel corteggiamento. Il parco, il cielo azzurro, la passeggiata ci aiutarono a smorzare sul nascere i fraintendimenti e a creare confidenza con la ragazzina. Marcello scattò delle immagini in contro luce di loro due che passeggiano, seduti su una panchina, sul prato, primi piani delle loro teste accanto, le delicate mani della figlia che accarezzano i lunghi capelli del padre sdraiato sull’erba, le spalle di lei vestita di nero accanto alle spalle di lui/lei in abito bianco e tutto un volant. Sono foto da cui emergono il groviglio della situazione, l’amore e le difficoltà di un percorso, l’affetto e le tensioni, l’aspirazione a essere chi si desidera e la paura di non essere capiti o accettati.
TUTTI i fotoreporter con cui ho lavorato si sono mossi nello stesso modo. Silenziosi e attenti hanno ascoltato, osservato e poi scattato. Lo ha fatto Manfredo Pinzauti quando abbiamo incontrato don Ercole Artoni, un prete comunista di Reggio Emilia che ha dedicato la vita al recupero dei tossicodipendenti. Lo hanno fatto Lidia Costantini con i genitori di bambini autistici, Mici Toniolo fra le donne marocchine che aiutavano le ragazze madri lì emarginate e le madri che avevano perso i figli sotto le bombe a Tuzla e i maschi della famiglia nel genocidio di Srebrenica. Lo ha fatto Fredi Marcarini ritraendo Nadia Macrì dopo un’intervista in cui mi parlò con una sincerità disarmante della sua vita e dei suoi incontri da escort con Silvio Berlusconi. E poi c’è lo scatto fatale che Michele Monasta, fotografo di scena del maggio Fiorentino, fece a Firenze a Zigmunt Bauman e alla seconda moglie Alexsandra Kania. Fatale perché nessuno immaginava che quella sarebbe stata l’ultima intervista del sociologo che, fra l’altro, spinse Aleksandra a svelare chi era suo padre, ovvero Boleslaw Bierut, il primo presidente comunista della Polonia nel dopoguerra. Quel ritratto di loro due, che non riuscivano a ricordarsi se si erano sposati nel 2015 o nel 2014, più che un testamento sembra una foto di nozze, scattata in pochi minuti quattro mesi prima che Bauman morisse.
VORREI chiudere con una frase citata in La mia fotografia di Grazia Neri (Feltrinelli) e pronunciata da Don McCullin, fotoreporter britannico famoso per i suoi reportage di guerra e sui conflitti sociali: «Non sono un artista. Le mie foto sono in un museo perché non ho altra scelta. I giornali non vogliono più mostrare questo tipo di fotografie». E mai come ora ce ne sarebbe bisogno.
4.fine
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