Jung scriveva che il nostro inconscio non ha ancora superato il medioevo e l’età classica, al contrario di quanto la cosciente spinta verso il progresso potrebbe far pensare. In questo quadro si inserisce perfettamente Germania. Römischer Komplex, una delle ultime due produzioni degli Anagoor presso il teatro di Mülheim an der Ruhr. L’ispirazione è l’opera di Tacito, in un confronto con i testi classici che la compagnia veneta porta avanti con costanza. Il regista Simone Derai ne parla in un incontro al termine dello spettacolo: «Spesso un corpo centrale, che può essere poetico o letterario, viene “bombardato” con altri materiali. Non è niente di nuovo in teatro, ma lo facciamo come se Polifemo scagliasse il corpo di Ulisse sugli scogli, in maniera violenta. In questo modo facciamo risuonare corpi che a volte sembrano cadaverici come quelli della tradizione».
Germania indaga il concetto di «altro» – le tribù oltre i confini imperiali – mettendo davanti allo specchio anche il «proprio», la civiltà romana. E se quasi duemila anni sono passati, se con la Germania siamo ora in un’unione economica e talvolta politica, le parole che risuonano sul palco sono un termometro di un’avvenuta assimilazione in cui tutti hanno perso qualcosa. Il primo ad entrare in scena è Marco Menegoni, voce di Tacito e dell’Urbe, a cui si affianca il «barbaro» Bernhard Glose. Nel continuo scivolare tra italiano, latino e tedesco della drammaturgia di Paola Barbon, l’aria si addensa di questioni ancora attuali: bisogna andare oltre il Reno a «portare l’ordine», anche se la pressione ai confini è ormai inarrestabile.

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TRA IL GIOCO di specchi di queste due figure si inserisce un’archeologa, interpretata da Simone Thoma, connettore tra quell’epoca del passato e la nostra nel legame con le ossa disposte sul palco, l’elemento prevalente di una scena minimale che rappresenta la permanenza della materia memore del massacro della foresta di Teutoburgo. Tra il sangue versato di ieri e quello di oggi, nulla si cancella nelle microstorie come nella grande Storia. Il peso di questa incombenza è ben sottolineato dalla musica di Mauro Martinuz, «una nota ostinata, che favorisce l’appoggio della meditazione sulla lingua e sulla parola» la definisce Derai. A fare poi il suo ingresso come in un intermezzo, con le luci di platea accese, è Roberto Ciulli, regista e attore milanese fondatore del Theater and Der Ruhr nel 1980. Il suo è un intervento autobiografico, in cui racconta il proprio arrivo in Germania e l’esperienza da «Gastarbeiter» nell’industria della Ruhr. Entra così il tema del lavoro e dello sfruttamento, tra le conseguenze di quell’assimilazione violenta che si è esercitata poi, guarda caso, al contrario. «La mobilità delle genti è spinta dal bisogno, a cui risponde anche il lavoro, i discorso sono intrecciati e non si esauriscono con le conquiste del ’900» afferma ancora Derai. Se la tensione politica è una priorità per la compagnia veneta, scopriamo che lo è anche per il Theater and Der Ruhr nelle parole del direttore artistico Sven Schlocke: «Paghiamo tutti allo stesso modo, dagli attori ai tecnici, l’utopia si allontana quando provi ad afferrarla ma continuiamo a tentare». Mentre Germania rappresenta anche l’incontro di un gruppo di lavoro tedesco e uno italiano, nella seconda produzione vista a Mülheim degli Anagoor, Vom Licht, Derai si è confrontato unicamente con gli interpreti residenti della compagnia del teatro.

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«NON SIAMO intervenuti sul testo di Anselm Neft perché al suo interno c’è già tutto il lavoro che normalmente facciamo. La famiglia protagonista si interroga sulle nostre matrici, quelle che ci appartengono, che ci si sono calcificate addosso e che sono a volte all’origine dei nostri problemi, inestricabili al nostro modo di vivere e pensare. Una famiglia che è alla ricerca della verità non può che ripartire dalle fonti, vorrebbero superare la storia del pensiero ma ci restano impigliati». Incentrato sul lavoro attoriale, lo spettacolo pungola lo spettatore col nichilismo del testo arrivando a sussurrare la domanda su quanto anche noi riusciamo ad amare la vita – se, come si sostiene, una cieca produzione foriera di annichilimento è al fondo del pensiero occidentale e al suo concetto di Dio.