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Scarpelli, la commedia all’italiana e la tribù degli imperfetti

Scarpelli, la commedia all’italiana e la tribù degli imperfettiVittorio Gassman in «L’armata Brancaleone» di Mario Monicelli, Roma, dicembre 1965, foto Keystone-France/Gamma-Keystone via Getty Images

Scrittori di cinema La pubblicazione da Sellerio degli inediti narrativi di Furio Scarpelli, prolifico sceneggiatore insieme ad Age, induce a riflettere sul rapporto tra script filmico, letteratura e... coscienza della sinistra

Pubblicato 12 mesi faEdizione del 22 ottobre 2023

«Il cinema viene dopo» era un motto di Furio Scarpelli che, per gli appassionati di calcio, risuona in modo non troppo diverso dall’adagio di José Mourinho: «Chi sa solo di calcio non sa niente di calcio». Lo conferma la testimonianza di Francesca Archibugi nel volume-omaggio (Le Mani 2012) a cura di Alessio Accardo, Chiara Giacobelli e Federico Govoni, che peraltro porta il motto scarpelliano come sottotitolo. La futura regista, che di Scarpelli era stata allieva al Centro Sperimentale e poi amica, era rimasta inizialmente perplessa dal suo modo di fare lezione, perché «non ci parlava di sceneggiatura, ma di storia, politica, filosofia, narrativa, anche botanica, oppure dei cappelli anteguerra, o ancora di come si fanno gli spaghetti con le vongole e di come si tolgono le zecche ai cani». A confermare l’idea che l’uomo di cinema – o perlomeno lo scrittore di cinema – deve possedere innanzitutto, più che la tecnica, una curiosità universale. Ma il motto scarpelliano, come tutte le massime incise da lunga esperienza, può essere letto in molti modi, e almeno due valgono la pena di essere esplorati avvicinandosi al romanzo inedito di Scarpelli appena pubblicato da Sellerio, Si ricorda di me, signor tenente? («La memoria», pp. 176, € 14,00).
Il primo è biografico, e indica una vocazione tardiva al cinema, o meglio, una non-vocazione: figlio di quel Filiberto che fu pittore, illustratore e inventore di giornali (tra cui, con Vamba, il «Giornalino della Domenica» che diede i natali a Gian Burrasca), Scarpelli iniziò come disegnatore per i periodici umoristici che furono il brodo di coltura del cinema italiano, e si pensò sempre e prima di tutto come tale, anche quando si era ormai installato nell’industria cinematografica. Da questo, la sensazione – espressa nel documentario La strana coppia: incontro con Age e Scarpelli, realizzato nel 2001 da Paolo Virzì, altro allievo ed erede – di stare nel cinema solo provvisoriamente, come qualcuno che è sempre pronto a fuggire verso altri orizzonti.

Il secondo e più interessante significato riguarda invece la posizione singolare degli sceneggiatori della commedia all’italiana, e in particolare della coppia più prolifica e «autoriale»: quella composta, appunto, da Scarpelli insieme ad Agenore Incrocci, meglio conosciuto come Age. Lo ricorda il figlio Giacomo, nella postfazione ad Amori nel fragore della metropoli, che nel 2019 ha inaugurato presso Sellerio la proposta di inediti narrativi scarpelliani. In un paese, come l’Italia, che mancava di letteratura popolare, lo sceneggiatore doveva essere «autore due volte»: mentre negli Stati Uniti, per esempio, gli scrittori di cinema si rivolgevano con agio alla produzione editoriale, adattando libri di già ampia circolazione, qui dovevano in qualche modo crearsi da soli il «romanzo» che avrebbero poi trasformato in script. Quello che in gergo si chiama trattamento era insomma la novella (formato congeniale alla letteratura italiana) che forniva la base del copione, e proprio con questo genere sono imparentati gli scritti di Scarpelli. «Il cinema viene dopo», dunque, segnala che prima c’è sempre e comunque la letteratura, pure se in una forma particolare. Ma la letteratura viene prima anche in un senso metafisico, di «motore immobile»: come indica sempre Giacomo Scarpelli, suo padre aveva in studio una (metaforica) scrivania su cui coltivava storie che, nate magari per il cinema, prendevano vita propria solo sulla pagina.

Appartiene a questo gruppo il romanzo Si ricorda di me, signor tenente?, che è debitore di situazioni e tipi umani famigliari agli spettatori della commedia all’italiana, ma che guadagna a poco a poco una sua profondità specificamente letteraria, perché basata sul potere della parola. Alla fine del secolo scorso, a Milano, due ex commilitoni del fronte greco-albanese si incontrano per caso: uno è un piccolo-borghese con la memoria offuscata e le percezioni ovattate per la persistenza di un antico trauma; l’altro è un Proteo ciarliero e truffaldino, che forse si è addirittura impossessato di un’identità non sua, una figura che immediatamente si vedrebbe incarnata dal Gassman del Mattatore – così come l’incontro tra i due ha qualcosa che ricorda quello tra i due ex partigiani, l’eterno proletario Manfredi/Antonio e l’arricchito Gassman/Gianni, nella seconda parte di C’eravamo tanto amati. Eppure, quello che sembra un rapporto parassitario tutto sbilanciato a sfavore del piccolo-borghese Giulio – costretto a offrire «camparisoda» e pranzi in trattoria, a fare prestiti, ad accompagnare l’amico in un cinema porno – diventa a poco a poco la leva per scardinarlo dall’ottundimento di tutta una vita. L’ex commilitone Oscar (se poi è davvero lui) è un trickster, un ipnotizzatore, un terapeuta che fa affiorare il trauma, legato alle sorti di un terzo personaggio dei tempi della guerra (anche qui, nel modello triangolare dei tre amici, si riaffaccia il disegno di C’eravamo tanto amati). Prima demistificato, Oscar si fa demistificatore, quasi eroe suo malgrado – in un parallelo, questa volta, con lo schema narrativo della Grande guerra. Il personaggio più ostentatamente falso diventa il più vero, e una menzogna, di conseguenza, la vita protetta di Giulio – compresa la moglie Emilia, l’infermiera che si era presa cura del suo caso nell’ospedale che l’aveva ospitato dopo la prigionia tedesca, e il cui accudimento (come per altre madri/mogli scarpelliane) si rivela un abbraccio tentacolare, soffocante, una delle maschere del familismo italico.

Come spesso veniva imputato agli autori della commedia all’italiana, la presa di coscienza finale non porta a una lacerazione ma a una paradossale conciliazione, o almeno a una mediazione del negativo con la situazione di partenza: questa formula, da sinistra, suscitava le critiche a uomini di sinistra quali appunto erano e sarebbero stati, per tutta la vita, Scarpelli e Age, che a volte quasi finivano per concordare coi loro detrattori. Eppure, in questa forma di pacificazione sbilenca, senza ferite, c’è già un po’ la traiettoria di una certa sinistra italiana che da opposizione sarebbe diventata forza di sistema. Questo Scarpelli l’aveva capito, e anziché attenuare le proprie posizioni con l’avanzare dell’età, si era fatto più radicale – lo ricorda un altro sceneggiatore della generazione a lui successiva, Umberto Contarello, sempre nel volume edito da Le Mani: «A un certo punto Furio quasi colpevolizzò, in modo secondo me ingiusto, proprio questa specie di tribù degli imperfetti», ossia tutti quei proletari, borgatari e provinciali di cui aveva cantato l’ingenuità e le risorse. Ma quegli «imperfetti», per Scarpelli, avevano nel frattempo perso l’innocenza dietro il consumismo e la tv; come il Marcello protagonista del racconto Sonato, in Amori nel fragore della metropoli, si compravano «un completo blu cangiante come quello di Berlusconi» e «squillanti scarpe tipo Adidas bianche rosse e verdi» con i soldi del pizzo riscosso per conto di un boss di quartiere, ma poi finivano per provocare la morte del proprio amore, unico residuo di purezza.

Monicelli diceva di non amare molto i film «crepuscolari» della commedia all’italiana, ossia certe pellicole firmate da Age & Scarpelli e dirette da Ettore Scola come, appunto, C’eravamo tanto amati o La terrazza. Se la parabola tematica della commedia – come ha scritto Paolo D’Agostini – ha seguito le stagioni dell’età degli autori, scandendo nettamente la giovinezza, la maturità e la senescenza, nel fastidio di Monicelli si può leggere un rifiuto del tempo che passa, oppure – per una figura meno ideologica del suo duo di scrittori – un’incomprensione di quella sensazione di tradimento delle speranze, umane ma soprattutto politiche. «Oscar dice che il tempo è immobile, siamo noi che corriamo» ripete Giulio alla moglie, dopo una serie di incontri con l’ex commilitone, ed è forse questo il tizzone tra gico più autentico che brucia sotto le ceneri della commedia, qualcosa che l’ultimo Scarpelli non è riuscito a perdonare ai suoi «imperfetti», e che ha potuto rimuginare per via letteraria, senza la paura del bisbiglìo del pubblico e del numero di biglietti strappati: la rivelazione che la vita non è lineare come l’utopia.

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