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Scarpe per scrivere: tesori dimenticati nelle Reali Case de’ Matti

Scarpe per scrivere: tesori dimenticati nelle Reali Case de’ MattiCumuli di scarpe nei sotterranei dell’ex manicomio di Aversa

Ex manicomio di Aversa Oggetti personali e cartelle cliniche dei reclusi, storie oggetto di ricerca fiinite in un libro

Pubblicato circa 5 anni faEdizione del 2 novembre 2019

I I Nel mezzo di Aversa, in provincia di Caserta, c’è un muro che circonda 17 ettari di parco, attraversa tre comuni, contiene quelli che una volta erano due manicomi: il Santa Maria Maddalena e il Leonardo Bianchi. Il complesso risale al 1269 ed era un ospizio per i lebbrosi, nel 1420 diventa un convento e nel 1813, per volere di Murat, si trasforma nelle Reali Case de’ Matti, il primo manicomio del sud Italia creato in ossequio ai principi illuministici per sottrarre la materia alla gestione della Chiesa. I principi illuministici non hanno fatto breccia e a partire dal 1978, con la Legge Basaglia, è cominciata la lunga stagione di passaggio per arrivare alla chiusura, avvenuta effettivamente solo nel 1999. Poteva diventare un’occasione di riscatto e invece il luogo è abbandonato, depredato, in bilico tra un nuovo futuro pubblico e appetiti privati.

Il vialetto conduce all’ingresso dell’imponente edificio. Varcato l’uscio, pareti e porte sono in buono stato, ridipinte da poco. A vegliare le stanze sulla destra e la sinistra di una scrivania sistemata nel primo ballatoio c’è Nicola Cunto, il responsabile del Centro studi Reali Case de’ Matti: insieme a comitati e associazioni, ha cercato di bloccare la spoliazione della struttura a cui sono stati sottratti marmi, infissi in ferro battuto, tubi, cavi, tutto quello che poteva essere rubato perché di pregio artistico, perché vendibile (come i sanitari) o anche solo per sfregio, come i miseri beni degli internati che venivano consegnati all’ingresso.

Il chiostro di piperno conserva sulle pareti le scritte tracciate dai pazienti: si bruciavano la suola delle scarpe e con la gomma fusa lasciavano le loro testimonianze. Sopra gli affreschi delle volte e intorno gli stemmi in marmo. Antonio Esposito è un ricercatore che ha studiato gli archivi del manicomio: «Un pomeriggio del gennaio 2017 – racconta – con Fabio Esposito, un operatore a quel tempo impegnato in una delle poche aree recuperate del manicomio, dove sorge la fattoria sociale “Fuori di zucca”, si è deciso di percorrere i luoghi più nascosti del Santa Maria Maddalena. In uno di questi, la luce delle torce ha illuminato decine e decine di scarpe accatastate, rotte, rosicate dai topi, spesso spaiate. Cumuli abbandonati in un “altrove” nascosto, pezzi di storie smarrite, testimonianza di sentieri interrotti e cammini traditi».

È ancora Esposito a spiegare come quel cumulo ricordasse Auschwitz ma mentre il lager è diventato museo e la memoria racconto collettivo, nessuno dà dignità a quelle storie, che ha fatto diventare parte del suo libro Le scarpe dei matti. Pratiche discorsive, normative e dispositivi psichiatrici in Italia (1904-2019) (Ad est dell’equatore, 2019, € 30, 680 pp), frutto del progetto di ricerca «La libertà è terapeutica. La 180 a 40 anni dalla sua emanazione: previsioni e criticità della legge che ha cancellato i manicomi», promosso dall’Istituto di Studi Politici S. Pio V.

Nei sotterranei non ci sono solo scarpe ma anche rotoli di tela per le divise, abiti di seconda mano, medicinali abbandonati, testimonianza di altre epoche e altre terapie. E poi c’erano le cartelle cliniche che Cunto e un gruppo di ricercatori ha dovuto ricaricare sulle carriole per rimetterle nelle sale superiori, a disposizione di chi vuole studiarle. Un patrimonio inestimabile che rischia di sparire e, in parte, è già stato saccheggiato. Ci sono cartelle dell’Ottocento, vergate in bella grafia. Tutta la prima produzione è in francese.

«Mi capitavano faldoni del secondo dopoguerra – spiega Esposito – con nomi slavi. Erano reduci dei lager, ex partigiani o sfollati da zone di guerra finiti nei campi profughi. Per svuotarli, li mandavano nei manicomi con i motivi più assurdi, ad esempio perché incapaci di comunicare. Semplicemente parlavano un’altra lingua». Archivi storici e analisi sui percorsi psichiatrici attuali si intrecciano: «Assistiamo al ritorno del fascino sempre meno discreto del manicomio, delle sue logiche e prassi, attraverso lo smantellamento dei servizi – conclude Esposito -. Fare memoria serve ad agganciarci a quell’utopia della realtà che nel 1978 portò al superamento dei manicomi, ponendo la questione mentale come questione politica».

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