Scarabottolo, matite atletiche
Sport Intervista al famoso illustratore sul suo rapporto cretaivo con i soggetti sportivi
Sport Intervista al famoso illustratore sul suo rapporto cretaivo con i soggetti sportivi
La matita come espressione sintetica delle copertine dei libri di sport. Come punto di osservazione periferico dello sport, che dovrebbe educare al rispetto degli altri, allo spirito di squadra,all’onestà, invece è teatralità, ipocrisia, individualismo sfrenato. Ne parliamo con Guido Scarabottolo, illustratore di fama internazionale, del New York Times, New Yorker e dell’inserto culturale del Sole 24Ore. La sua matita ha disegnato anche su Extra, in passato inserto culturale del manifesto.
Quando hai cominciato a illustrare copertine?
Ho cominciato a disegnare collaborando con i quotidiani, non per le case editrici, ancora oggi disegno illustrazioni che vengono affiancate agli articoli, cerco di tirar fuori un’immagine senza annoiare il lettore, il disegno è una specie di commento visivo. Ho una formazione che parte dal fumetto, insieme ad altri amici nasciamo come architetti, quando abbiamo cominciato facevamo la grafica di Lucca Comics, il festival più importante al mondo di fumetto d’autore negli anni ’70, ci siamo fatti le ossa così, quel tipo di disegno semplice, sintetico e forte, da un punto di vista emotivo mi è rimasto. Nel 2002 l’editore Luigi Brioschi mi propose di disegnare le copertine di tutti i libri di Guanda. Nel 2008, quando fu fondata la casa editrice 66than2nd, gli editori mi chiesero di occuparmi dell’immagine, ma collaboravo con Guanda, tenevano particolarmente al mio disegno e accettai di collaborare solo per la collana di sport, il loro progetto era di pubblicare letteratura sportiva di buon livello.
Quando disegni una copertina di un libro di sport leggi tutto il libro?
Leggo il riassunto, i nomi dei protagonisti sportivi sono talmente noti che non c’è bisogno di informazione preventiva. Mi interesso poco di sport, però so chi è Platini, Pantani è conosciuto. Il più bel monumento dedicato a Pantani è quello che sorge dove c’è Mercatone Uno, verso Imola, ci sono le biglie, che usavo da bambino, con le foto del ciclista dentro una bolla di plastica alta tre o quattro metri, un’idea bellissima.
Come ti ispiri per le copertine dei romanzi che raccontano sport americani come il baseball, il football o l’Nba?
Magic Johnson è noto, l’immaginario sportivo americano c’è l’hanno inoculato attraverso i film, il cinema, la televisione, al di là dell’interesse sportivo, proprio come veicolo di propaganda culturale tipico degli Stati Uniti, come tutto il cinema di Hollywood, se poi ci risultano strane le regole del baseball pazienza. Forse è più difficile disegnare le copertine dei libri dedicati agli sport orientali,come la lotta giapponese Sumo, perché meno conosciuti a livello globale.
Disegni una sola copertina per i libri di sport?
Avanzo tre o quattro proposte. L’editore di 66thand2nd ogni tanto ha da ridire, come per la copertina del libro Giorni selvaggi del premio Pulitzer William Finnegan, mi disse che il surfista era stato disegnato storto, o per la copertina del libro di Duncan Hamilton, George best l’immortale, un giorno mi disse guarda che Best era bellissimo, tu l’hai fatto brutto, devi rifarlo. Isabella Ferretti si lamenta perché imbruttisco dei campioni che lei giudica bellissimi, in questi casi rifaccio la copertina, ricorro a un pò di cosmetica.
Qual’è stata la copertina più difficile?
Nessuna ha presentato particolari difficoltà, tra me, gli editori di 66than2nd e la grafica Silvana Amato c’è stima reciproca. E’ stata piuttosto difficile la copertina del libro La squadra spezzata sulla squadra di calcio dell’Ungheria del ’56, ho dovuto disegnare undici giocatori, è stato particolarmente faticoso, al prezzo di una copertina normale, ti pagano una anche se la rifai dieci volte, però il disegno più lo rifai e peggio viene. Le mie copertine non sono popolari, sono un pò intellettuali.
Pensi che le graphic novel possano trattare le tematiche dello sport e intercettare i più giovani?
Secondo me sì, le graphic novel sono come le sorelline piccole del cinema, più che del romanzo, perché lavorano molto sul valore delle immagini. Questo è un momento buono per la graphic novel, perché ci sono degli autori molto giovani di una bravura straordinaria, tanti sono italiani. Ho iniziato negli anni ’70 quando c’erano gli underground americani, Cramb, Family, Pratt, Pazienza, era un momento d’oro del fumetto d’autore, poi scomparso con le crisi dell’editoria e dell’economia e con un uso più ampio della televisione, oggi assistiamo a una riscoperta del fumetto d’autore di buon livello. La graphic novel è un modo di scrivere per immagini che ha una sua autonomia.
Che tematiche affronteresti riguardo allo sport?
Non mi sono mai posto il problema. La cosa che mi diverte è dire tutto in un’immagine. Ho praticato sci, nuoto, pesca subacquea, pattinaggio a rotelle. Non sono particolarmente appassionato di calcio o di altri sport di squadra, quando ero al liceo mi divertiva molto la pallavolo. Lo sport ha dei temi sottotraccia molto interessanti, come il rapporto con se stessi, l’impegno, la fatica in relazione alla propria formazione fisica, che va di pari passo con quella mentale, il lavoro di squadra che tendiamo a dimenticare. Quando si parla di calcio, si parla sempre di individualità e pochissimo del lavoro di squadra, anche in un lavoro come il mio è fondamentale lo spirito di squadra. Ho lavorato sempre con altre persone, anche se svolgo una professione che può sembrare individuale, l’ho sempre fatto confrontandomi prima con i miei soci, poi con i miei amici, vedo lo sport come educazione al lavoro collettivo, alla relazione con gli altri, comportarsi sportivamente vuol dire essere attenti agli altri. Non mi piacciono le figure sportive aggressive, che non riconoscono l’importanza della relazione, uno può essere un grande atleta, ma se sei solo non sei nessuno.
Ti ha colpito qualcuno in particolare?
Non li conosco, non è un mondo che seguo da vicino. Una cosa che mi annoia mortalmente nelle partite di calcio, sembra di essere in certi spettacoli teatrali, è la finzione rispetto ai falli subiti, fingere di aver subito un colpo forte che ha provocato danni, rotolarsi a terra, l’astuzia, è un modo di fare che mi disgusta, con la prevalenza di queste modalità le partite di calcio sono oggetto di continue interruzioni, la formazione dei giocatori è improntata ormai tutta alla teatralità con conseguenze nefaste anche sui ragazzini che li imitano sui campi di gioco.
Lavori anche negli Stati Uniti?
Da otto anni ogni domenica sull’inserto culturale del Sole 24 Ore pubblico un disegno, in America questo non sarebbe possibile, collaboro con il New York Times e il New Yorker, perché gli illustratori cambiano di continuo. L’illustrazione deve moltissimo alla cultura anglosassone, nei giornali c’è la figura dell’art director che capisce di illustrazioni, anzi ve ne sono più di uno, da noi l’art director non conta, chi si occupa della parte visiva è sempre il direttore, è la mancanza di gusto che pesa. Invece il manifesto ha una grandissima tradizione sotto questo punto di vista, Extra è stato il supplemento domenicale in bianco e nero più bello che si sia mai visto in Italia, era bellissimo e molto bene illustrato, poi è stato imitato.
Come vivi il mondo dello sport?
Lo sport è una metafora della società, se le società sono malate è malato anche lo sport. Per recuperare la funzione positiva dello sport, bisognerebbe lavorare sull’onestà, ma non mi sembra la preoccupazione maggiore della dirigenza sportiva di questo Paese. Siamo stati educati a prendere in considerazione i rapporti sociali, come fattori importanti, adesso si parla di sviluppo individuale. Lo sport potrebbe fare molto, soprattutto quando uno scopre che giocando bene insieme agli altri vince, però quando ti insegnano a fingere di essere morto, appena l’avversario ti sfiora, è la fine. Lo sport potrebbe fare moltissimo anche sullo sviluppo di una coscienza antirazzista, è insito nello sport che tutti possano partecipare, invece i tifosi di calcio sono dei razzisti tremendi, basta parlare con gli altri per capire che sono uguali a noi. Attraverso lo sport potremmo imparare ad amarci di più.
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