Scampia, la rinascita di un territorio fragile
Napoli Viaggio senza filtri nel quartiere simbolo del degrado alla scoperta di una comunità che educando i ragazzi vince anche contro i luoghi comuni
Napoli Viaggio senza filtri nel quartiere simbolo del degrado alla scoperta di una comunità che educando i ragazzi vince anche contro i luoghi comuni
Tutti sembrano conoscere vita, morte e miracoli di Scampia, oggetto di un’attenzione e una narrazione mediatiche costruite sui problemi di questo luogo e non sulle sue risorse e con le sue persone. Della serie, la serie Gomorra ha detto tutto e Saviano ancora prima: è sufficiente accendere la televisione, aprire il libro, fare la conta delle parole «spaccio», «degrado», «rifiuti» e «abbandono» nei titoli dei giornali per poi chiudere e restare sul divano a sospirare. Oppure.
Oppure si può decidere di andare: dalla Stazione Centrale di Napoli basta prendere la linea 1 della metropolitana e scendere al capolinea, Piscinola-Scampia. Niente di più facile, se si seguono le indicazioni e soprattutto la motivazione, ossia guardare la realtà senza filtro, con tutti i sensi ben desti. Difficilissimo se invece si preferisce non mettere alla prova i luoghi comuni con quelli che non si conoscono.
Alzi la mano chi non ha visto neanche una volta in tv una delle «Vele» di Scampia, originariamente sette edifici progettati dall’architetto Franz Di Salvo e costruiti fra il 1962 e il 1975 per rispondere all’emergenza abitativa del territorio. Oggi tre mostri superstiti di cemento male armato.
Alzi la mano ora chi le ha viste da vicino, da sotto, da dentro. Chi ne ha sentito l’odore e i suoni, i silenzi. Marco Danieli girò un documentario proprio sul silenzio di un ecomostro simile di un’altra grande città metropolitana, Corviale a Roma, l’edificio di quasi un chilometro noto anche col nome di «Serpentone», e solo quando ci sei dentro capisci perché.
Il senso di smarrimento e di non identità che provocava quel luogo vennero esaminati non da un architetto o da un urbanista o un sociologo ma dal medico Antonello D’Elia, del Distretto di Salute Mentale del vicino quartiere popolare di Casetta Mattei, che concretizzò la sua analisi proprio nel documentario del 2008 che diede voce agli abitanti di Corviale.
Vivono una condizione simile gli abitanti delle Vele, ma il loro suono si sente. E se a volte perfino «satura», come si dice in gergo, altre invece stenta a uscire, come accade a Giuseppe, sette anni e vari tentativi di dire i pensieri tutti d’un fiato. Lo puoi trovare nella casa del nonno alla «Vela celeste», l’unico edificio, dei tre rimasti, che continuerà a rimanere in piedi e sarà riqualificato, così come stabilito nel piano «Restart Scampia».
Giuseppe non può affacciarsi dal balcone e vedere il campetto di bocce che altri bambini e adulti hanno costruito per i piccoli come per gli anziani della zona: non è una questione di altezza o di cautela, qui i balconi non sporgono ma restano dentro la piatta superficie del blocco di cemento. Le Vele che dall’alto sembrano davvero velieri immobili, dal basso appaiono come strisce bidimensionali su cui si fa fatica a fissare lo sguardo, cercare un punto d’appoggio, trovare un elemento che rompa la soluzione a sviluppo orizzontale e lasci intravedere umanità. Eppure l’umanità c’è, è tanta, sta dentro.
Suona inopportuna e perfino buffa l’affermazione che la Vela sia come un carcere davanti a chi il carcere l’ha conosciuto: «Mo so’ chiuso, ma io vivo bbuono ca, mi vojono bene tutti quanti». E ride, il nonno di Giuseppe, chiudendo ancora di più gli occhi a mandorla che gli valgono da sempre il soprannome di «O cinese», lui che è napoletano doc, che pure se ha fatto solo la prima elementare tanti anni fa, i cartelli stradali, «quelli li saccio, tutt’e strade».
Quante strade ci sono a Scampia per uscire dai propri limiti e da quelli di un territorio fragile?
La dispersione scolastica qui non è un fenomeno che appartiene solo alla generazione del nonno di Giuseppe: secondo uno studio di Tuttoscuola, l’Italia ha perso 3 milioni di studenti negli ultimi 20 anni e la Campania è al secondo posto, dopo la Sardegna, per il tasso di abbandono più elevato, che si attesta al 29,2%.
Una ricerca promossa dalle associazioni Zoli-San Pio nel 2017 evidenziava un forte e consistente aumento del fenomeno in tutta Napoli, dove nel 2016 oltre il 10% dei 15.383 studenti iscritti al primo anno di scuole superiori ha lasciato la scuola. Picchi di abbandono scolastico si registrano in altri quartieri della periferia est e nord: Ponticelli, Barra, San Giovanni a Teduccio, Miano, Secondigliano, San Pietro a Patierno, Piscinola, Marianella, Chiaiano e poi Scampia, quartiere di circa 40 mila abitanti dove il 50% delle persone ha meno di 25 anni e il tasso di disoccupazione è intorno al 60%.
«La scuola è un patrimonio comune e come tale va curato da tutti nel nostro Paese», ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel discorso di inaugurazione dell’anno scolastico 2018-2019. «E’ nostro compito contrastare il circolo vizioso tra povertà economica e povertà educativa». Come?
Come fa per esempio Davide Cerullo, scrittore e fotografo con un passato nella malavita e un presente dedito alla formazione dei ragazzi e dei bambini in particolare. E’ lui che ha ideato e guidato la realizzazione del piccolo campo di bocce, è lui il fondatore dell’associazione di promozione sociale L’albero delle storie, che si occupa di progetti educativi rivolti ai bambini e alle loro mamme. Poesia cruda. Gli irrecuperabili non esistono è il suo ultimo libro di parole, Visages de Scampia, il suo ultimo libro di foto, pubblicato dall’editore francese Gallimard.
La strada è il suo campo d’azione privilegiato, dove incalza i grandi che gli passano accanto per un saluto e un aiuto sull’importanza di saper leggere e scrivere per non farsi prendere in giro, per essere cittadini consapevoli, capaci di scegliere e partecipare alla cosa pubblica così come a quella privata, ovvio.
E’ un botta e risposta continuo, quello a cui si può assistere nei pressi della Vela celeste. Vengono in mente le esperienze di Danilo Dolci a Mirto, in Sicilia, e di Lorenzo Milani a Barbiana, in Toscana, che nell’Italia degli anni Sessanta videro entrambi nella «comunità educante» il mezzo principale per la cura alla povertà, all’indifferenza, alla mafia, all’assenza delle istituzioni. Lettera a una professoressa, del resto, il testo più famoso di don Milani, venne scritto dall’intera comunità e «chi gioca solo non perde mai», uno degli slogan più cari a Danilo Dolci, sintetizzò il senso anzi la parte di responsabilità di cui ognuno deve farsi carico per lo sviluppo del bambino così come dell’adulto.
«Una delle peggiori oppressioni si esercita su chi manca di parola: bisogna riconsegnare la possibilità di sapere usare la parola», ripete Davide e pare non stancarsi mai.
Del resto è attraverso la parola che stiamo cercando di uscire dai luoghi comuni, di attraversare i cosiddetti «non luoghi» per scoprire che il senso di identità e di riscatto culturale è forte e l’esempio può essere trascinante.
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