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Savoldo: il devoto, come se lì fosse presente

Savoldo: il devoto, come se lì fosse presenteGiovan Gerolamo Savoldo, "Madonna in adorazione del Bambino con due devoti", UK, Royal Collection Trust

Francesco Frangi, "Giovan Girolamo Savoldo. Pittura e cultura religiosa nel primo Cinquecento", Silvana Editoriale A partire dal pittore bresciano, lo studio di un tipo particolare di pittura sacra diffusasi tra Lombardia e Veneto

Pubblicato più di un anno faEdizione del 18 giugno 2023
Giovan Battista Moroni, “Devoto in preghiera davanti alla Madonna col Bambino”, Washington, National Gallery of Art

«Come se lì fusti presente». Questo l’invito rivolto al fedele dall’autore delle Meditationes Vitae Christi, un testo francescano a lungo creduto di Bonaventura da Bagnoregio, che rievocava gli episodi della vita di Cristo con una straordinaria ricchezza di particolari, funzionale a ricreare quelle situazioni, quei momenti, affinché il devoto potesse calarvisi psicologicamente, sentirsene spettatore. Il testo ebbe enorme successo per tutto il tardo Medioevo, ma la sua fortuna crebbe ancora di più con l’avvento della stampa, che ne favorì la diffusione presso ogni tipo di pubblico. È all’analisi del sentimento religioso sotteso alle Meditationes, e alle sue riprese anche cinquecentesche (sant’Ignazio), che è dedicato il primo dei tre corposi capitoli del libro di Francesco Frangi che, mettendo al centro la figura paradigmatica di Savoldo, ha inteso affrontare un aspetto tipico, e assai affascinante, della pittura del Rinascimento del Nord Italia, quello della raffigurazione del devoto (anche committente) nelle scene sacre: Giovan Girolamo Savoldo Pittura e cultura religiosa nel primo Cinquecento, Silvana Editoriale, pp. 394, e 35,00).
Nel titolo Frangi non ha esplicitato il contesto geografico oggetto della sua ricerca, credo per due ragioni. Da una parte l’autore restringe piano piano il campo, ma prende in considerazione anche la raffigurazione di Sigismondo de’ Conti nella Madonna di Foligno di Raffaello, ad esempio, e quelle di tanti altri donatori in opere fiamminghe del Quattrocento, per mettere a fuoco la peculiarità di Savoldo, e dei suoi contemporanei (più o meno), da Lotto a Moretto, senza dimenticare Tiziano, tutti capaci di suggerire davvero la presenza fisica di questi uomini dell’epoca nella scena sacra, in un dialogo commovente, a volte impressionante, con Maria o Cristo (arrivando spesso persino a ritrarre quegli stessi uomini del Cinquecento nelle vesti di santi, anche al di fuori di scene narrative o devozionali). Dall’altra, alle prese con questi maestri, si deve parlare di pittura veneta, o più specificatamente lombarda?
La questione non è di poco conto, e attraversa sottotraccia molte pagine del libro. Savoldo nacque a Brescia – che, si sa, all’epoca era comunque sotto il governo della Serenissima –, ma molta della sua attività si svolse a Venezia, e Frangi mette l’accento sulla centralità della Dominante, sui fermenti culturali che l’attraversano; grazie anche alla prodigiosa attività editoriale di quella che era allora la capitale della stampa in Italia. E poi c’è il tema cruciale dello stile: non si tratta infatti solo di una questione iconografica, poiché è grazie a un naturalismo intenso, semplice e cordiale, che quegli uomini del Cinquecento sembrano al contempo respirare la nostra aria e anche assistere, in carne e ossa, al mistero sacro. Si tratta dello stesso naturalismo che innerva la pittura di Caravaggio, che per Longhi aveva radici squisitamente lombarde, bresciane, prima di tutto proprio savoldiane; e non veneziane e giorgionesche come si credeva nel Seicento.
Nel libro di Frangi il maestro di Castelfranco, protagonista della pittura veneziana del primo decennio del Cinquecento, e padre in qualche misura di gran parte del naturalismo dell’Italia settentrionale, non ha un ruolo cruciale, anzi. È invece nella pittura devozionale a mezze figure di Giovanni Bellini, e di belliniani quali Vincenzo Catena, con i committenti travestiti da santi, che si individuano le radici di un fenomeno che esplode già col Tiziano del Battesimo di Cristo della Pinacoteca Capitolina (1512 circa), in cui la formula del committente ‘in abisso’ (ovvero raffigurato solo dal busto in su, quasi non potesse invadere del tutto la sfera sacra) è genialmente rinnovata, e Giovanni Ram, visto praticamente di spalle, ci introduce prepotentemente alla scena evangelica. Da lì, il passo all’ancora più rivoluzionario capolavoro di Moroni a Washington è in fondo breve: e qui si è davvero di fronte a qualcosa di lontanissimo dal sentimento religioso che si potrebbe apprezzare in qualunque opera contemporanea del Rinascimento centro italiano.
La ricerca di Frangi, che mette in parallelo immagini e testi, senza mai porre le prime meccanicamente a traino dei secondi, punta a ricostruire un intero ambiente culturale, oscillando tra macro e microstoria. Da una parte, cioè, c’è la storia religiosa dell’Italia del pieno Cinquecento, scossa anche dai moti della Riforma, e poi della Controriforma, dall’altra c’è il caso studio di Savoldo – protagonista del secondo capitolo del libro – e del suo rapporto con un preciso committente (ed ecco la microstoria; più volte, ovviamente, Frangi si rifà al magistero di Carlo Ginzburg), ovvero Pietro Contarini, a cui è dedicato l’ultimo capitolo. Se, infatti, in molti casi non possiamo dare un nome ai committenti di Savoldo, Moretto, Lotto o Moroni – ignoto, a esempio, è l’uomo ritratto nell’appena citato capolavoro di Washington – e in altri, pur in presenza di un nome – il Giovanni Ram di Tiziano – non sappiamo molto della biografia cui fa capo, il discorso cambia a proposito di questo Contarini, recuperato alla storia dell’arte già nel 1985, da Manfredo Tafuri.
Nel suo testamento del 1527, il nobiluomo veneziano – scomparso pochi mesi dopo – disponeva che una serie di opere in suo possesso fossero destinate all’arredo della propria cappella funeraria da erigersi ai Santi Apostoli; il complesso non è giunto intatto a noi, e non sappiamo dove finirono le ben quattro tele di Savoldo raffiguranti tutte (!) la «Madonna che va in Egipto» che Contarini lasciava alla chiesa. Attraverso tanti documenti emersi via via nel tempo si possono tratteggiare i caratteri di questo committente del maestro bresciano, umanista e collezionista di antichità, ma anche e soprattutto protagonista della vita religiosa che fioriva intorno alla basilica domenicana dei Santi Giovanni e Paolo (a cui erano legati tanto Savoldo quanto Lotto), e autore di un poderoso testo in volgare, in terza rima dantesca, che non giunse alla stampa (il manoscritto si conserva alla Marciana di Venezia). Nella prima parte di questo Christilogos peregrinorum lo stesso Contarini, e tre suoi amici nobili veneziani, compaiono in scena nelle vesti di pastori d’Arcadia per poi trasformarsi nei pastori presenti all’adorazione del Bambino, seguendo fisicamente tutte le vicende dell’infanzia di Cristo fino alla fuga in Egitto (eccola!); e la loro partecipazione al racconto evangelico è tale che, proprio di fronte alla Vergine («prostrato nel tuo bel cospetto»), Perillo alias Contarini disconosce la sua prima attività di poeta d’amore, arcadico: «mi pento Madre, et sì mi batto il petto». Molto altro c’è nel poema della Marciana, a partire dalla rievocazione delle tumultuose vicende politiche veneziane di inizio secolo (la disfatta di Agnadello, il contrasto con la Roma di Giulio II), ma sono soprattutto questi brani che ci fanno venire in mente le varie redazioni savoldiane del tema dell’Adorazione del Bambino, da parte della Madonna, sì, ma anche di devoti o pastori in varia misura attualizzati (quella delle collezioni reali inglesi è giustamente l’immagine copertina del libro). Per non parlare poi dell’Adorazione dei pastori di Lotto, alla Tosio Martinengo di Brescia, che quasi suggerisce l’ipotesi che pure Lorenzo – e/o i suoi committenti? – conoscesse il poema del Contarini.
Tutta la ricostruzione contestuale di Frangi è pienamente convincente, e anche ben sorretta da un apparato illustrativo di quasi duecento immagini, sempre a colori (in un libro sostanzialmente economico, che non è un dato di poco conto). E si tratta di un contributo importante tanto per la storia religiosa del Cinquecento quanto per la messa a fuoco del naturalismo della pittura rinascimentale lombardo-veneta: un caso esemplare di indagine interdisciplinare.

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