In un non meglio precisato «Villaggio» vige l’usanza di abbandonare gli anziani nella radura ai piedi di una montagna affinché da lì possano compiere la loro «ascesa»: al tempo stesso un rito e un eufemismo per significare la morte. Con passo solenne, noncuranti del freddo e delle bestie selvatiche, animati da una fede incrollabile nella promessa del paradiso, gli anziani procedono. Intorno al contrasto tra vita e morte cui si intrecciano altre polarità – obbligo e arbitrio, guerra e pace, istinto e raziocinio, comunità e individuo – Sato Yuya, scrittore di talento e dalla notevole immaginazione,  ha costruito un avvincente romanzo titolato Dendera (traduzione di Bruno Forzan, Rizzoli, pp. 384, € 15,00) , di cui è protagonista la settantenne Kayu,  che viene tratta in salvo proprio quando il suo ardente desiderio di morire stava per essere esaudito. Scopre, così, che nel villaggio in cui era nata e cresciuta c’è chi non «aveva intenzione di morire solo perché le era stato ordinato».

Un gruppo di donne la cui «ascesa» risaliva anche a trent’anni prima aveva fondato una comunità segreta chiamata Dendera, che raccoglieva altre donne le quali, per scelta o loro malgrado, erano scampate alla morte dopo l’abbandono nella radura.

Tra le casupole di fango e paglia di Dendera si vive e poco altro, del resto la comunità esiste solo in funzione di ciò che contesta, la costrizione a una morte prematura. E alle donne che la governano come governerebbero un villaggio, rimane poco da fare se non aspettare la fine o coltivare sogni di rivalsa. Kayu, una volta privata della possibilità di raggiungere il paradiso, osserva le dinamiche interne alla comunità di Dendera, incapace di darsi la morte ma anche di rassegnarsi a vivere.

«Le donne che vivevano a Dendera, con la loro esclusiva smania di sopravvivere, la facevano sentire impura»; ma diversamente da quanto accadeva quando ancora abitava al «Villaggio», Kayu non è più disposta a lasciarsi trascinare dalla corrente: chiede, discute, litiga, vuol sapere con quali promesse quelle donne abbiano rimpiazzato il paradiso, e prima di rendersene conto è lei stessa a cercare una motivazione per vivere, ciò che chiama il proprio «ideale superiore». Compie un esercizio al quale in settant’anni di vita non si era mai dedicata: riflette. E trascorre così le prime giornate a Dendera.

La calma della comunità viene tuttavia scossa da alcuni imprevisti: una misteriosa epidemia la invade, poi un’orsa con il suo cucciolo scatena la propria furia, fa razzia delle provviste accumulate dalle donne, le attacca ripetutamente, ferendole e uccidendole. Nonostante sia inverno, spiega una delle abitanti di Dendera, può capitare che gli orsi non vadano in letargo: «Se non hanno mangiato a sufficienza, o non hanno trovato un posto adatto, restano in giro alla ricerca di cibo». La lotta con l’animale occupa la parte più corposa del romanzo, che non risparmia dettagli scabrosi e violenti, mentre raggiunge picchi di grande intensità emotiva. Come l’orsa resta «in giro» perché non ha mangiato a sufficienza, le donne di Dendera rimangono aggrappate alla vita perché non l’hanno mai interamente vissuta. La piccola comunità si offre come una soglia, un interstizio, uno spazio liminale abitato da figure per loro natura subalterne: perché donne e per di più anziane. Lo stile asciutto di Sato Yuya si affida a parole taglienti come sferzate di neve, e non contempla toni consolatori, né pacifici: a Dendera, le donne sono alla ricerca di un senso tardivo per ciò che resta loro da vivere, dunque sanno di non avere tempo per aspettare le altre: non esiste «sorellanza», lì, né vera solidarietà. Più che una mancanza di empatia, ciò che le guida è un necessario egoismo, sebbene tutte si rendano attive, anche le più apparentemente remissive, sia nella lotta contro l’orsa che nel combattere l’epidemia. Kayu pensa come non le era mai capitato di fare, il suo cervello elabora informazioni e finalmente arriva a capire che vita e morte sono entità inseparabili, e come tali governano la nostra esperienza sulla terra così come sulla loro montagna: «Nessuno meglio di Kayu, tra loro, sapeva come potessero coesistere al tempo stesso nelle persone una ragione per vivere e una per morire. E come chi fosse dominato dal desiderio di morire percorresse il più rapidamente possibile la strada verso la propria fine, con lo stesso impegno che avrebbe profuso chi cercava di sopravvivere».

La scrittura essenziale di Satō, nella trasposizione fedele di Bruno Forzan, conferisce ritmo alla narrazione e traccia immagini potenti senza cedere a barocchismi di sorta. La sua è una voce cruda, quanto mai appropriata a un racconto in cui la vita è ridotta ai minimi termini ma non c’è traccia della retorica spesso associata alle storie più estreme di sopravvivenza. I mesi o gli anni concessi alle donne di Dendera non sono tanto il tempo di una sfida materiale, della resistenza fisica (anche se il corpo e i suoi deterioramenti occupano una posizione centrale nella dimensione visiva del romanzo), quanto di un’elaborazione intellettuale e morale che trascende la realtà corporea e interroga il lettore sulle questioni ultime dell’esistenza.

Alla vita mentale di Kayu fa da contrappunto la geografia degli istinti dell’orsa, che più della donna pare consapevole del posto che occupa nel mondo, imperturbabile, sicura. Particolarmente apprezzabili, talvolta persino toccanti, sono proprio i capitoli in cui la voce narrante assume la prospettiva dell’animale, conferendo alla sua furia disperata un carattere universale perché, in fondo, è condivisa con le «bipedi» sue rivali.

Dendera è un romanzo complesso, la cui pubblicazione in Italia colma un vuoto importante. Ricco di significati allegorici, dall’intreccio elaborato eppure sempre razionale, narrazione di ampio respiro, spinge con forza a riflettere, e come tutti i libri che con piglio quasi brutale esortano alla riflessione è prezioso. Dendera, in fin dei conti, è la periferia del nostro mondo, lo spazio dei respinti, dei reietti, quelli veri e quelli che tutti noi ci portiamo dentro. È uno spazio in cui valgono regole diverse da quelle della società, in cui l’unico vero valore è la vita stessa come somma degli istinti, delle pulsioni, degli egoismi radicati in quell’ideale superiore, quel motivo ultimo che dà un senso alle nostre esistenze e determina la nostra sopravvivenza.