Sato Makoto, spazi d’assenze e memorie del fiume
In mostra Una retrospettiva per riscoprire il documentarista giapponese e il suo sguardo sulla vita quotidiana. I film lungo l’Agano e sulla malattia psichica, il tempo e le immagini
In mostra Una retrospettiva per riscoprire il documentarista giapponese e il suo sguardo sulla vita quotidiana. I film lungo l’Agano e sulla malattia psichica, il tempo e le immagini
Quando il 4 settembre 2007 se ne andava, a soli 49 anni, Sato Makoto, scompariva dalla scena cinematografica giapponese non solo uno dei documentaristi più originali e interessanti, ma anche un fine teorico della settima arte, in particolare per quel che riguarda la non-fiction. Se la sua opera più famosa al di fuori dell’arcipelago rimane probabilmente il suo debutto, Aga ni ikiru (Living on the River Agano) del 1992, è con gli ultimi suoi lavori che Sato stava cominciando ad esplorare le potenzialità e i limiti del cinema del reale. È nel nuovo millennio infatti che l’autore giapponese mette in immagini le riflessioni che aveva sviluppato nei volumi dedicati alla storia e all’evoluzione del cinema di non-fiction in Giappone e nel resto del mondo.
UNA RETROSPETTIVA itinerante intitolata The Philosophy of Living: Sato Mako Retrospective sta riproponendo i film di Sato, restaurati in 2K o 4K, lungo tutto l’arcipelago, un’occasione per (ri)scoprire i film di una delle figure cardine per lo sviluppo del documentario giapponese contemporaneo e non solo. Sato è stato infatti anche professore e saggista, e la sua influenza come docente e divulgatore si fa sentire ancora oggi attraverso coloro che studiarono con lui.
Sato comincia la sua attività di documentarista sulle orme dei due grandi nomi del cinema del reale del dopoguerra giapponese, Ogawa Shinsuke e Tsuchimoto Noriaki. Ispirandosi ai loro documentari, la serie di Minamata per il primo e quella di Sanrizuka e il periodo a Yamagata per il secondo, Sato decide di vivere per tre anni con il suo staff in una comunità lungo il fiume Agano, Niigata, per filmare le loro lotte per il riconoscimento legale della sindrome di Minamata, causata dall’inquinamento del fiume da parte di uno stabilimento della Showa Denko. Il progetto però si trasforma in un lavoro che segue la vita quotidiana degli abitanti dei piccoli villaggi della zona, lasciando in secondo piano le rivendicazioni legali.
L’interesse del gruppo e dei movimenti sociali che tanto avevano caratterizzato il cinema giapponese degli anni sessanta e settanta, si trasforma con Sato in un interesse per il quotidiano e per la vita dei singoli individui. Uno slittamento tettonico per il cinema documentario, già iniziato a metà anni settanta che però Sato non banalizza, evitando il tono autocelebrativo e narcisista di tanta produzione «personale» del periodo. Anche perché una forte consapevolezza dei pericoli e dei dilemmi etici del puntare la macchina da presa verso un soggetto è stata una caratteristica che ha innervato tutta la sua carriera. Dopo Agano ed alcuni lavori per la televisione, nel 1998 Sato decide di indirizzare il suo sguardo sulla produzione artistica realizzata da sette persone con problemi mentali, in Mahiru no hoshi (Artists in Wonderland) e sulla figura di una ragazza di 22 anni affetta da autismo e molto dotata per la pittura in Hanako, di tre anni successivo. O ancora Otentosama ga hoshii (Want the Sun) del 1995, un lavoro poco noto e difficilmente reperibile, anche nel Sol Levante, montato da Sato a partire da centinaia di ore filmate dal cameraman Watanabe Sho per documentare il progressivo deterioramento delle condizioni della moglie, malata di demenza senile.
MA FORSE l’opera che segna una sorta di svolta estetica per Sato è Self and Others, uscito nel 2000, esperimento visivo attraverso il quale esplora la vita e le fotografie di Gocho Shigeo, fotografo affetto dal morbo di Pott e morto nel 1983 a soli 36 anni. Gli spazi vuoti della quotidianità, i silenzi dei vicoli cittadini deserti e l’assenza presente nelle immagini, vengono qui portati in superficie e formano il nocciolo centrale del film. Self and Others è un lavoro che cattura il fluire del tempo e i piccoli momenti catturati dalle fotografie o dalla macchina da presa, riflettendo allo stesso tempo sul significato dell’atto fotografico o cinematografico in sé e su come questo sia indissolubilmente legato alla creazione di memorie.
I primi anni duemila sono anche il periodo in cui Sato pubblica le sue riflessioni più importanti sull’arte documentaria e sullo sviluppo del cinema del reale, soprattutto in Dokyumentarii eiga no chihei (L’orizzonte del film documentario, 2001), diventato negli anni un volume spesso citato quando si parla del cinema di non-fiction nel Sol Levante.
FRA IL 2002 e il 2003 viene invitato a Londra per un anno dall’agenzia degli affari culturali, esperienza che gli permette di venire a contatto con diverse cinematografie; fatto ritorno in Giappone, riprende l’idea per un nuovo lavoro ambientato lungo il fiume Agano. La scoperta di alcune lastre fotografiche che ritraggono la vita nella zona durante il periodo Meiji (1868-1912), lo inducono a continuare il percorso cominciato con Self and Others, ma abbandonando l’idea di un altro film basato su fotografie e usando invece la sua esperienza filmica di dieci anni prima. Ritornando sui luoghi del suo debutto assieme al cameraman di allora, Kobayashi Shigeru, Sato costruisce quello che forse è il suo lavoro migliore, o almeno quello che mette in mostra in modo più poetico le sue preoccupazioni filosofiche legate al mondo dell’immagine e del loro uso archivistico.
Aga no kioku (Memories of Agano) esce nel 2004, è lungo solo 55 minuti e resta a tutt’oggi un affascinante tuffo in quella mise en abyme che è l’immagine cinematografica quando riflette sé stessa. Living on the River Agano proiettato su un telone nei boschi, le immagini degli anziani abitanti della zona ora scomparsi rallentate e rese quasi spettrali; le rovine e gli spazi vuoti delle case abbandonate in cui si aggira lenta la macchina da presa lasciano spazio al sonoro del vento, ai rumori di sottofondo e all’assenza, che come in Self and Others viene qui evocata. Il cinema come macchina che proietta l’assenza quindi, sia essa quella delle persone, dei luoghi, del regista stesso, di cui vediamo le immagini di 10 anni prima e che è capace, in un movimento contrario, a lasciare spazio a quell’altro mondo che si nasconde nel quotidiano depopolato e nelle cose lasciate a sé stesse, su cui Sato scrisse in un volume pubblicato nel 1996.
SU QUESTI BINARI tematici e stilistici si muove anche Out of Place: Memories of Edward Said, il documentario diretto da Sato uscito per ultimo (2005), anche se la produzione di Memories of Agano è probabilmente successiva. Il regista e la sua troupe visitano le zone dove lo scrittore di origini palestinesi è cresciuto e i luoghi che ha abitato da ragazzo, mescolando questo fukeiron (teoria del paesaggio) con interviste e materiali d’archivio come i filmini di famiglia o foto dello stesso Said. Pur toccando molti temi trattati in Self and Others e Memories of Agano, Memories of Edward Said è un film non perfettamente riuscito, dove forse il punto debole è non essere stilisticamente intransigente come gli altri due lavori. Rappresenta comunque la perfetta chiusura di una trilogia, non ufficiale, che ha ancora molto da dire e dare al cinema contemporaneo e che andrebbe quindi (ri)scoperta assieme a tutta l’opera del regista giapponese.
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