Sasha Vasilyuk, le menzogne di Stato e le bugie degli uomini
In una lettera che la sua famiglia leggerà solo dopo la sua morte, Efim Shulman racconta di aver mentito sul suo passato durante la Seconda guerra mondiale: non è stato un «eroe» che ha combattuto fino alla conquista di Berlino, come lo considerano moglie e figli, e le autorità che lo invitano anche a commemorare tra gli studenti la Grande guerra patriottica. Se infatti avesse detto la verità, vale a dire che era stato catturato dai tedeschi insieme ai sopravvissuti dell’unità dell’Armata rossa in cui prestava servizio come artigliere e che era finito prima in un campo di lavoro del Terzo Reich e poi a fare da contadino-schiavo nelle campagne lungo il corso dell’Elba, riuscendo sempre a celare il fatto di essere ebreo che lo avrebbe condotto immediatamente alla morte, Efim rischiava di finire in un gulag o di essere punito dalle autorità sovietiche, al pari di altri ex militari scampati al conflitto, perché la propaganda staliniana non ammetteva che i soldati dell’Urss non combattessero sempre e comunque fino alla morte.
La colpa di Efim, che rientrato nel villaggio natale in Ucraina scoprirà che la gran parte della sua famiglia è stata assassinata dai nazisti e dai collaborazionisti locali, è quella di essere sopravvissuto. Una colpa che sconterà con il silenzio e le bugie che ne accompagneranno il resto dell’esistenza, interrotte solo mezzo secolo più tardi con una lettera per il Kgb nella quale racconta la verità, premurandosi che i suoi famigliari non siano però costretti a pagarne le conseguenze.
A metà strada tra il romanzo e il memoir, Il vento è un impostore (traduzione di Roberta Scarabelli, Garzanti, pp. 382, euro 18), muove dalle vicende famigliari della scrittrice di origini ucraine, ma che vive da tempo in California, a San Francisco, Sasha Vasilyuk, collaboratrice di alcune delle maggiori testate statunitensi. Vasilyuk – che presenterà questo pomeriggio il libro nell’ambito del Festival Pordenonelegge (ore 17, spazio della Confindustria Alto Adriatico, con Valentina Berengo) – torna sulla memoria dolente dei propri nonni per proporre con la forza di una potente lingua letteraria una riflessione sul modo in cui il passato può influenzare il presente e su come le menzogne della Storia, e dei regimi, possono pesare per sempre sulla vita degli individui, costruendo una realtà dove nulla è davvero come appare.
Efim è quasi costretto a mentire sul proprio passato di prigioniero in Germania perché raccontando la verità rischierebbe di incorrere nelle reazioni delle autorità sovietiche, compresa la possibilità di finire in un gulag, e non sarebbe più un «eroe» agli occhi dei famigliari. La verità la affiderà ad una lettera ritrovata dopo la sua morte: cosa rappresenta tale elemento da cui muove l’intera storia?
Il romanzo è nato proprio da una vera lettera che mio nonno aveva scritto e che fu ritrovata quando morì. Attraverso il libro volevo esplorare la cultura della vergogna, della paura e della segretezza e il prezzo che un essere umano è disposto a pagare per mantenere nascosto il proprio passato. E come tutto ciò, in questo caso, coinvolga un uomo, una famiglia e la società stessa nel suo insieme.
«Il vento è un impostore» sembra indagare l’intreccio tra le piccole bugie degli uomini – in questo caso alcuni dei protagonisti – e le grandi menzogne della Storia. Alla luce della vicenda che racconta come descriverebbe il rapporto tra questi elementi: dove inizia il primo e termina il secondo?
Non c’è una sola famiglia nell’ex Unione Sovietica che non sia stata in qualche modo colpita dalle bugie. Manipolare la verità è il principio centrale di qualsiasi regime totalitario, ma richiede anche una forma di partecipazione dei suoi cittadini. Vivere in Urss significava vivere una doppia vita, sia che si trattasse di mentire alle autorità per essere lasciati in pace e non essere tormentati, che di mentire ai propri figli per proteggerli o, ancora, ai propri nipoti per non caricarli dell’amara verità di Stato del regime di Stalin.
Efim è fatto prigioniero dai nazisti e internato in un campo di lavoro. Altri suoi compagni, al ritorno in patria, finiscono nei gulag proprio per essersi salvati invece che morire al fronte. Così, lui riflette: «I campi tedeschi volevano distruggere la carne. Quelli sovietici, spezzare lo spirito». Senza fare inutili paragoni tra le due vicende, la storia di Efim descrive l’età dei «campi» al quotidiano?
I «campi» sono stati la massima espressione dei principi fondamentali dei regimi totalitari del XX secolo: la capacità di indurre in tutti i propri cittadini paura, impotenza e vergogna. La storia di Efim rappresenta perciò tutte quelle persone che possono anche non essere state mandate nei gulag, ma che sono state comunque trattate come cittadini di serie b e hanno vissuto a lungo nella paura, paura che permeava ogni istante della loro vita quotidiana.
Il romanzo prende spunto dalle vicende della sua famiglia: quando ha deciso che voleva raccontare questa storia e dove si ferma il rapporto tra realtà e finzione nel libro?
La lettera di mio nonno al Kgb costituisce la base della parte del romanzo che copre gli anni della Seconda guerra mondiale. Perciò, le date, i luoghi e i principali eventi di quel periodo che riguardano la storia di Efim sono reali: sentivo di dovere non solo a mio nonno, ma anche a tutti gli altri sopravvissuti dell’epoca, quasi l’obbligo di attenermi il più possibile agli accadimenti concreti. Ciò su cui ha invece il sopravvento la parte romanzesca, sono i dettagli, le emozioni e le relazioni con gli altri del protagonista. Altre fonti di ispirazione sono state le memorie di mia nonna sulla sua vita in Ucraina, inclusa la carestia degli anni Trenta, l’occupazione nazista, oltre ai dettagli sulla vita e la mentalità sovietica e post-sovietica.
Pur raccontando di vicende tragiche, il romanzo regala anche momenti di grande ironia. È un rimando alla tradizione dell’umorismo yiddish di prima della guerra?
Più che all’umorismo yiddish pensavo al tipo di umorismo che era proprio della vita sovietica. L’elemento comico rappresentava una parte enorme, anche se poco conosciuta, della cultura dell’Europa orientale e tale credo rimanga anche oggi. Mia nonna ha scritto che una volta qualcuno ha provato a misurare la velocità con cui una battuta si diffondeva in Urss: pare ci volessero tre giorni, e questo prima che nella maggior parte delle case ci fossero i telefoni. Anche adesso, in Ucraina, le persone cercano di conservare il proprio umorismo nonostante lo shock delle bombe che ti scoppiano intorno.
All’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina lei ha pubblicato sul «New York Times» un editoriale dal titolo «La mia famiglia non ha mai chiesto di essere “liberata”». Quanto pesano le vicende che racconta nel romanzo nel modo in cui la guerra è stata presentata dalla propaganda di Mosca?
L’ultimo capitolo del libro è ambientato nel 2015, durante la prima fase della guerra della Russia contro l’Ucraina. Questo, non solo perché volevo mostrare il ritorno della guerra in quella stessa terra di cui ho raccontato una parte delle vicende, ma anche perché speravo di chiarire come il passato possa essere utilizzato come un’arma. Quando un’intera generazione ha troppa paura o si vergogna di trasmettere la verità sulle proprie esperienze alle generazioni future, lascia dietro di sé un enorme vuoto storico che è facile da colmare da parte di autorità che abbiano un programma preciso: e questo è esattamente ciò che il regime di Putin sta facendo.
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