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Sartorio, istantanee irredentiste sulla barriera del Piave

Sartorio, istantanee irredentiste sulla barriera del PiaveGiulio Aristide Sartorio, "Vedette", 25 giugno 1918, sulla Diga del Piave fra Fossalta e Musile, Ministero degli Affari Esteri

Le immagini della guerra: Giulio Aristide Sartorio Un ciclo a misure uniformi che ripete la consistenza ossessiva delle atrocità belliche: il pittore ‘aulico’ che incorpora la fotografia

Pubblicato circa 2 anni faEdizione del 21 agosto 2022

Nel 1922, superata la soglia sapienziale dei sessant’anni, l’autore squisito del fregio eroico in Parlamento, il romano Giulio Aristide Sartorio, sceglieva di dedicarsi a un’attività intensa di scrittura, sfoggiando l’erudizione appresa sul modello inimitabile di D’Annunzio ed esercitata lungo una vita mondana di grand’eco: il suo debutto era stato d’altronde sancito dall’ammissione nella cerchia più à la page della capitale, ovvero quella del conte Giuseppe Primoli, discendente dalla nuova dinastia dell’ultimo Imperatore di Francia.
In quell’anno – provatosi perfino nel poema drammatico con l’inno pagano Sibilla – il pittore sceglieva di versare il proprio «intelletto eminentemente letterario» (lode rivoltagli in gioventù da Diego Angeli) nella fatica di un eloquente scandaglio critico. Sotto al titolo elegiaco Flores et humus – cimiteriale e classico, nel rispetto della declinazione tutta italiana di certo decadentismo transalpino – Sartorio inanellava infatti una serie dotta di conversazioni, che proprio nell’enciclopedia gabriellina trovavano la prima ragion d’essere, intrecciandola però al filo dell’ispirazione autobiografica.
Composto per una casa d’intestazione non meno poetica, «Il Solco» di Città di Castello, il florilegio offriva all’interprete coltivato un bouquet d’argomenti e di echi, fra i quali s’individuano con agio le manie care all’ispirazione del maestro: la rete dei simboli imbastita dall’antica scienza iconografica; il paesaggio inteso come trasfigurazione lirica del dato naturale; la grande decorazione, volta a celebrare le imprese dei singoli e delle nazioni; perfino l’idea seducente del trionfo pecuniario, riscosso alla corte d’una monarchia parlamentare e ritenuto ancora riconoscimento inevitabile per i geni patriottici.
La mente ai cavalli poderosi o alle tigri svelte del ciclo monocromo per la Biennale di Venezia, eseguito nel 1907, non stupisce neppure il rintracciare in quel volume un encomio entusiasta dell’arte animalier. Fra nomi provatisi nell’anatomia equina e creatori appassionati di levrieri e barboni, muove semmai a meraviglia leggere, in chiusa del capitolo zoologico una nota sulla «pittura militare», come se questa specializzazione condividesse con l’altra un fragrante «sentimento di natura», il comune «stile della vita» avverso alle mostruosità di fantasie indomite.
Sartorio, d’altronde, conosceva la materia, vista l’amara tournure che aveva sofferto nel 1915. Nell’esaltare la severa disciplina di Antoine-Jean Gros, «coscritto» nell’esercito napoleonico, «incorporato in un reggimento quale ufficiale» mentre seguiva e dipingeva le gesta bonapartiste, il romano rammemorava soprattutto la propria esperienza, quando, ormai cinquantacinquenne, era stato arruolato nel corpo delle Guardie volontarie sul fronte austro-italiano: catturato durante uno scontro col nemico, si era visto rinchiudere per due anni a Mauthausen, assieme ad altri prigionieri, e da qui aveva ritrovato la libertà per diretta intercessione di Benedetto XV.
Dietro al suo reclutamento si deve distinguere un’ansia testimoniale, associata allo spirito interventista che all’alba della Primo Guerra Mondiale animava gran parte dell’intellettualità tricolore. Soltanto così si può spiegare il ricordo di Romeo Gallenga Stuart, l’estetico Sottosegretario alla propaganda, che – nel dirsi assediato dalle pressioni di Sartorio – ne richiamava il desiderio di trovarsi in prima linea sin dall’inizio delle ostilità; e così si chiarisce anche il rilievo attribuito, nel testo del ’22, all’esperienza dei pittori-soldato, quelli cioè in grado di farsi «apologisti drammatici» in contrasto con l’eloquenza degli «apologisti classici», sostenitori pomposi di qualsiasi evento marziale ma dall’ambiente rarefatto dei propri studi, dal comfort bohémien di ateliers esclusivamente muniti di tele e colori.
Una simile febbre va riportata allo spirito irredentista, alla missione «storica» che il sentimento nazionale attribuiva alla lotta a fianco dell’Intesa e contro la germanofonia degli Imperi centrali. Tuttavia, in Sartorio, essa dovette gravarsi di un valore ulteriore, estremo, capace di legarla non solo al senso d’appartenenza a una comunità politica, ma anche – e verrebbe da dire soprattutto – di caricarla del rispecchiamento in una tradizione aulica, secolare, di farne insomma un tema di «figurazione».
È in questa luce che appare interpretabile la scelta dell’artista di ricondursi immediatamente sul campo nel novembre del ’17 – da civile, a proprie spese e senza un ruolo ufficiale – per registrare le gesta delle truppe sabaude sulla linea del nord-est, a pochi mesi dalla fine del suo internamento. Perché, se è pur vero che i ranghi ministeriali andavano sostenendo i più variegati racconti bellici nella chiave di un laico apostolato e di un diretto sostegno al morale dei cittadini, Sartorio viveva la propria presenza lungo la disperata barriera del Piave come una missione precipua, una vocazione intesa nel solco di eminenti predecessori e di celebri colleghi.
Arrivò quindi a eseguire oltre cento ‘istantanee’, tra olii finiti e studi abbozzati, ricorrendo a varie tecniche, dal pastello al carboncino: opere che attestano un interesse documentale nel distinguersi, l’una dall’altra, per l’indicazione di data e luogo a cui va riferito ciascun soggetto, ma che trascendono la consistenza puramente archivistica nella varietà sperimentale dei tagli, nella ricchezza materica delle tavolozze, nella curiosità meditativa degli episodi ritratti.
Certo grazie al calendario bellico ricostruito di scena in scena è possibile seguire le vicende finali del conflitto, destinato a sovvertire le disfatte toccate in sorte agli italiani fino alla tragedia di Caporetto; tuttavia, nella progressione composta da Sartorio – il gruppo più consistente degli olii si caratterizza per dimensioni coerenti, fissate attorno ai 60 x 80 cm – è proprio l’idea di «serie» a veicolare il sentimento, ossessivo e grandioso, di una pregnante modernità.
Non a caso, sempre in Flores et humus, il pittore avrebbe celebrato il caso di un oscuro acquarellista, Pietro Bagetti, morto a Torino nel 1831: «addetto allo stato maggiore del Bonaparte, (…) l’aveva seguito nelle campagne d’Italia, e (…) era incaricato di eseguire i quadri in una data grandezza, ottantacinque centimetri per cinquanta», al fine di illustrare le «battaglie come accaddero nei luoghi» e di «rappresentarle con arte consumata di paesista».
Sartorio, nel suo reportage per immagini, immortala il bombardamento del San Gabriele, le sepolture sul Carso, il pontone Tigre a Capo Sile, un attacco aereo su Venezia, la testa di ponte ad Agenzia Zulian, secondo un andamento ricostruito da Renato Miracco; e impone a ciascun episodio la griglia di misure uniformi, quasi a ripetere la consistenza monotona delle atrocità guerresche, delle attese, degli sfinimenti dei fanti in trincea, degli sforzi costanti dei cavalieri. Affabulatore consapevole, è però anche conscio di come una simile scelta ribadisca, con evidenza icastica, la competizione col mezzo ormai al servizio della cronaca, anche di quella turbinante dell’ecatombe militare, e cioè la fotografia: non a caso, le sue conversazioni del ’22 avrebbero menzionato l’uso non servile fatto del nuovo strumento tecnologico da parte di Ernest Meissonier al servizio dei fasti di Napoleone III….
L’archivio del maestro ha così conservato gli scatti in bianco e nero – sgranati, frettolosi, quasi rubati, a volte prodotti dall’esercito, in altri casi dallo stesso Sartorio – che, come in un puzzle, gli servirono d’ispirazione per i quadri: una forma nuova d’en plein air, come detto da Marco Pizzo, che alle pazienti sedute di fronte al cavalletto sostituiva lo shock istantaneo della testimonianza, i fantasmi impressionati su rullino e pellicola, il ricordo indelebile lasciato dagli scontri, per dignificare – un occhio alla tradizione, l’Idea saldamente ancorata ai principi compositivi – la vicenda di fango, sangue e sacrificio di una guerra vieppiù invisibile, crudele e demolitrice; insomma per conservare l’umano in quello che l’umano stava distruggendo, sull’esempio di Piero, di Callot, del Rosa, del Courtois o dell’ultimo Fattori.

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