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Sargent, il carboncino contro la stanchezza

Sargent, il carboncino contro la stanchezzaJohn Singer Sargent, "Olimpio Fusco", Washington, National Gallery of Art

A New York, "John Singer Sargent: Portraits in Charcoal", a cura di Richard Ormond e Laurel Peterson Un tratto spezzato e nervoso, chiaroscuri profondi: fra i ritratti su carta quelli, celebri, di Yeats e di James. Stremato dal ruolo di ritrattista a olio dell’upper class, a poco più di 50 anni il pittore americano fa una virata modernistica con il disegno autonomo

Pubblicato quasi 5 anni faEdizione del 17 novembre 2019

Quando nel 1907 Lady Radnor gli propose di eseguire il ritratto di una delle sue figlie, John Singer Sargent le rispose che avrebbe potuto chiedergli di dipingere qualsiasi cosa, «il suo cancello, i suoi steccati, i suoi fienili – cosa che farei davvero volentieri – ma non più il volto umano», e all’amico Ralph Curtis, anch’egli pittore e discreto ritrattista, in una lettera dello stesso anno, scrisse che ormai i ritratti gli facevano orrore e non voleva più sapere di farne, soprattutto a persone dell’alta società. In queste parole si percepisce tutta la stanchezza di Sargent che, a poco più di cinquant’anni e dopo alcuni lutti che lo avevano segnato intimamente, è ormai al culmine del successo, ma sente che qualcosa si è incrinato nel suo meccanismo di artista perfettamente consolidato.
Quello che colpisce non è però soltanto la determinazione nel voler abbandonare la ritrattistica, il genere che gli aveva offerto una notorietà tale da essere stato definito addirittura il Van Dyck moderno, ma la volontà di non ritrarre più quell’high society che, in particolare negli anni londinesi, dopo lo scandalo legato al ritratto di Madame Gautreau (meglio noto come Madame X), lo aveva preferito a qualsiasi altro pittore al punto che un suo dipinto veniva considerato la vera e propria consacrazione della bellezza e, soprattutto, del successo di una donna. Nella sua esplicita chiarezza, la lettera di Sargent all’amico Curtis nasconde poi un sottile gioco di parole con cui il grande pittore americano – che sarebbe meglio definire cosmopolita – sembra voler addirittura deridere i modi di dire aristocratici quando, facendo il verso alla pronuncia elegante e sofisticata, ma forse lievemente ridicola dell’upper class anglosassone, scrive con fare perentorio: «No more paughtraits».
Quella tra Sargent e i suoi più famosi committenti sembra ormai una distanza incolmabile, ma non lo sarà fino in fondo. Sargent infatti non smise mai di ritrarre l’alta società internazionale che, come sempre, continuava a inseguire le sue opere, probabilmente perché proprio quella era la sua vocazione più profonda; a cambiare furono i materiali: non più olio su tela, ma carboncino su carta, mentre la qualità – eccelsa – rimase sempre la stessa.
La mostra in corso alla Morgan Library & Museum (John Singer Sargent Portrait in Charcoal, fino al 12 gennaio, e successivamente alla National Portrait Gallery – Smithsonian Institution -– di Washington, dal 28 febbraio al 31 maggio), curata da Richard Ormond e Laurel Peterson, è forse la prima vera grande esposizione dedicata esclusivamente ai ritratti a carboncino di Sargent e, non poteva essere altrimenti visto il luogo che la ospita, è caratterizzata da un’estrema raffinatezza ed eleganza nei contenuti e nell’allestimento.
La Morgan Library non è nuova a ricercate mostre di disegni; fra le ultime, quelle su Tintoretto, Thomas Gainsborough e, nel 2017, su Poussin e Claude, ma forse mai come in questa occasione è stato riunito un gruppo così consistente di opere tali da offrire un nuovo approccio alla personalità di Sargent esplorandone anche le amicizie con i vari committenti e la rete di rapporti che ne ha reso possibile il grande successo.
Si tratta di una cinquantina di opere, molte delle quali provenienti direttamente dalle collezioni private degli eredi dei committenti stessi, fra cui meritano una citazione in particolare il ritratto di una giovanissima Lady Diana Manners, già allora esponente di quel gruppo di aristocratici e intellettuali inglesi noto come The Coterie o meglio The Corrupt Coterie, quello di Sybil Sassoon, di Daisy Fellowes e di Ethel Grenfell, tutte rappresentanti della migliore aristocrazia internazionale, ma anche di Robert Henry Benson, il banchiere la cui famosa collezione d’arte venne acquistata da Samuel H. Kress che poi la donò, insieme a molte altre opere, alla National Gallery di Washington.
Il ritratto forse più affascinante e moderno è quello del poeta William Butler Yeats, commissionato a Sargent nel 1908 per la copertina del primo volume di una sua raccolta di poesie. Proprio il poeta irlandese curiosamente così descrive il pittore: «Sargent is good company, not so much like an artist as like some wise, wealthy man of business who has lived with artists». Ovviamente è presente anche il bellissimo ritratto di Henry James del 1912, in prestito dalle collezioni reali inglesi, in cui lo sguardo penetrante del grande romanziere sembra emergere dal pallore del suo viso, posto in forte contrasto con lo sfondo velocemente tratteggiato di scuro.
Questi carboncini, troppo a lungo considerati l’opera minore di un grandissimo artista, soltanto uno schizzo al posto del ritratto ufficiale, grazie all’esposizione odierna conquistano invece un ruolo di primo piano nell’attività di Sargent e ne rappresentano un tentativo di affrontare nuove soluzioni artistiche senza più limitarsi a sfruttare quella ben nota facilità nel dipingere di cui era ampiamente dotato e che, secondo molti critici, in un certo senso, lo aveva limitato.
Già nel 1893 Henry James, che conosceva benissimo Sargent e ne era grande amico ed estimatore, scrisse che era «difficile immaginare un giovane meno incerto di quello che è il suo ideale, più lucido e responsabile fin dall’inizio riguardo a ciò che desidera», e si domandava se fosse «un vantaggio per un artista raggiungere presto nella vita una tale padronanza di mezzi che per lui smettono di esistere la lotta per conquistarli, la disciplina, i tatonnements» e se non fosse meglio invece «avere una certa porzione del suo patrimonio investito in difficoltà insolubili».
Le certezze giovanili di Sargent sembrano venire a mancare proprio nel momento della maturità. Il successo ormai era una questione acquisita di cui avrebbe potuto continuare a godere liberamente e, forse, fin troppo facilmente, ma la risposta del maestro alla propria personale parabola dei talenti è pronta e, negli acquerelli e soprattutto nei carboncini, troverà quella libertà di ricerca e quella modernità che andava esaurendosi nella sua «grande» pittura. La mostra alla Morgan Library conferma quindi che i dubbi e i ripensamenti di Sargent non erano in realtà legati alla necessità di abbandonare i ritratti dell’alta società, quanto all’urgenza di un passo avanti che riuscì a compiere impiegando un tratto maggiormente spezzato e nervoso, sottolineato da una esibita velocità dell’esecuzione, oltre che da chiaroscuri accentuati e quasi esasperati che influenzeranno buona parte della ritrattistica anglosassone del Novecento.

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