Severo Sarduy, “Sin título”, 1967, collezione privata

Conobbi Severo Sarduy a L’Avana, l’ultimo anno che vissi a Cuba, tra il 1956 e il 1957. Avevamo vent’anni e ambedue venivamo dalla parte orientale dell’isola, lui da Camagüey, io da Santiago. Nessuno dei due restò a lungo a Cuba: io partii nel settembre del ’57 per l’Italia, lui nel dicembre del ’59 per la Francia, nessuno dei due tornò mai più in patria.
Lo stesso accadde a un grande amico nostro, della stessa età, Julio Rodríguez Luis, che partì per Portorico per poi trasferirsi negli Stati Uniti. In un modo o in un altro le relazioni fra noi rimasero intatte fino al 1993, quando Severo morì. Nessuno dei tre, stricto sensu, si è occupato personalmente di politica. Severo all’inizio mostrò simpatie per la rivoluzione soprattutto dando per un po’ il meglio della sua produzione poetica giovanile – eccezionale per la sua generazione e a mio avviso quella con il più schietto senso lirico dell’epoca – alla rivista «Ciclón», nata da un dissidio fra il direttore e José Lezama Lima, forse la maggior figura letteraria cubana del Novecento.
Io, il primo a lasciare il paese, partii prima dell’arrivo di Castro e dunque non dovetti mai scegliere. Ero già a Firenze quando la rivoluzione si estese all’intera isola. Severo invece partì dopo, con una borsa di studio cubana. La sua situazione era più delicata ma i suoi doni erano ovvi ed ebbe successo anche a Parigi diventando amico di personaggi di prim’ordine come Roland Barthes e Nathalie Sarraute.
Severo non era stato amico di Lezama mentre era a Cuba: si era dato di cuore solo a «Ciclón» ma una volta in Europa finì non solo con l’avvicinare il poeta per corrispondenza ma addirittura col riconoscere in lui il suo solo maestro, prossimo e remoto come la patria. Anche Julio seguì lo stesso percorso intellettuale fuori da Cuba, divenendo professore di letteratura spagnola in varie università, con grande successo. Né l’uno né l’altro però dovettero cambiare lingua come dovetti fare io e Severo restò fino all’ultimo giorno della sua breve vita l’essenza della cubanidad.
Il comune amico Alfonso Pérez Sánchez, che era direttore del Museo del Prado, mi raccontò come Severo lo avesse supplicato di dargli alcuni dei tamponi impregnati di vernice che erano stati utilizzati per la pulizia de Las Meninas. Il gusto delle reliquie religiose è tipico di una certa mentalità cubana, così come un certo esibizionismo: Severo, infatti, amava inviare sue fotografie nudo – una si trova riprodotta nella mostra commemorativa tenutasi al Reina Sofia di Madrid nel 1998, dove si espose anche la sua produzione pittorica fino ad allora pressoché sconosciuta.
Guillermo Cabrera Infante, romanziere famoso un po’ più grande di noi, seguì un percorso diverso: prima fanatico sostenitore di Castro e direttore di «Lunes de Revolución», poi diplomatico in Europa, finì per rinunciare a ogni cosa attaccando con grande violenza l’intero sistema nato dalla rivoluzione. Ebbe anche il premio Cervantes in Spagna e tornò a Cuba solo brevissimamente per assistere ai funerali della madre né cambiò più idea. Scrittore di grande calibro, non era un amico facile come dimostra il suo esilarante volume Vidas para leerlas: la parafrasi di Plutarco nel titolo già prova il suo brillante senso della lingua e la sua perfida ironia.
Le mie relazioni con Severo proseguirono, anzi si intensificarono col suo arrivo in Europa. Lo incontrai per caso a Venezia nel 1960: a Cuba la situazione aveva visto ormai un totale cambiamento dopo la caduta frettolosa e rapace della dittatura di Batista. Severo era totalmente invasato del nouveau roman: «sono oggettivo, sai, come le cose che si fanno ora. Non ci interessano più Kafka e Proust. Abbiamo superato tutto questo». Forse la vicinanza della Sarraute gli aveva fatto per un po’ girare la testa, era caduto in quella trappola francesizzante che ogni tanto faceva dare il peggio di sé alla cultura di lingua spagnola. Ma il sangue creolo era più forte di ogni cosa e Severo reagì presto a questa sorta di malaria intellettuale.
Dopo essermi irritato – solamente in astratto – di queste manifestazioni, scrissi a Julio come Severo fosse diventato più genuino e generoso e come, dopo le assenze e i cambiamenti politici, la nostra amicizia si fosse trasformata, avvantaggiandosi di una sostanza fondamentale, la memoria della prima gioventù.
Ho continuato fino a oggi ad apprezzare le qualità di Severo poeta, la musica sensuale che lo pone molto più in alto di quanto si facesse allora fra i membri della nostra generazione. La sua forza era un dono naturale, alla portata di tutti: versi smaglianti e diretti al di là della moda transitoria. Era anche devoto all’arte figurativa ma da letterato, più che da conoscitore o da storico; ogni opera diventava un pretesto per scritti tra il poetico e il descrittivo quando non serviva di base a complesse teorie che per me restano criptiche. In un suo recentissimo studio Enrico Mario Santí (Severo Sarduy. El silencio que no muere, Fierro y Huerga Editores, 2022) cita la curiosa definizione che Severo dà del barocco e del neo barocco: «la differenza si deve all’eccessivo peso del significante e frustra l’importanza del significato».
Passata l’ebrezza dei primi tempi parigini Severo Sarduy ridivenne, trasformandosi, il poeta vero nato a Cuba e preferì rinunciare al francese abbagliante che lo aveva accecato, ritornando a una lingua più vera e più sua come accade col suo romanzo De donde son los cantantes, il cui titolo proviene da una famosa canzone (son) cubana: «Mamà yo quiero saber de donde son los cantantes…». Nessuno meglio del suo amico Roland Barthes ha definito in una sola frase quel che Severo è stato: «egli merita tutti gli aggettivi che formano il lessico del valore letterario: è brillante, agile, sensibile, divertito, inventivo, sorprendente e ciò nonostante chiaro e persino colto e costantemente affettuoso».