Cultura

Sarah Langan e quel terribile segreto dei quartieri eleganti

Sarah Langan e quel terribile segreto dei quartieri elegantiUn modellino di una periferia residenziale americana

L'intervista Parla la scrittrice di Long Island che pubblica «I buoni vicini» per Sem. Un romanzo che scava nelle contraddizioni del sogno americano, dove il sospetto diviene cultura dell’odio. «Crescere in una cultura che ti dice che se non sei perfetto sei un fallito, significa dover ingannare sé stesso e gli altri per stare al mondo»

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 19 giugno 2021

Maple Street non è solo una strada, il cuore di un quartiere residenziale alla periferia di Long Island. Per chi ha scelto di acquistare una delle splendide villette unifamiliari che affacciano sulle decine di ettari di boschi e natura incontaminata dello Sterling Park, quel luogo equivale ad un simbolo, non tanto di uno status sociale a cui si è avuto accesso magari a caro prezzo, ma di un intero stile di vita, di un modo di essere, sentirsi e mostrarsi agli altri. Arlo Wilde ne è talmente consapevole che quando finalmente riesce a racimolare i soldi necessari per accedere ad una di quelle case, sebbene la più piccola e quella più mal in arnese, nota che chi abita lì non veste, mangia e consuma soltanto in un altro modo ma pronuncia perfino le parole diversamente, quasi Maple Street possedesse un idioma segreto, noto solo ai suoi residenti. Ex rocker, ex tossico, un passato burrascoso di conflitti familiari, Arlo immagina quella nuova casa come l’inizio di un’altra vita, lungamente meritata, per sé, sua moglie Gertie, una ex Miss, splendida ma fragile e dalla biografia piena di cicatrici, e i loro figli Julie e Larry, anch’essi allo stesso tempo incerti e frastornati. Ad accoglierli saranno però il sospetto, lo sguardo severo e aggressivo di chi dal loro arrivo si sente in qualche modo minacciato. E mentre sull’intera zona cresce una minaccia ambientale che potrebbe inghiottire gli esseri umani come le case, quel sordo rancore si prepara a trasformarsi in violenza.

Scavando dentro l’epica contraddittoria del «sogno americano», ne I buoni vicini (Sem, pp. 392, euro 18, traduzione di Leonardo Taiuti), la scrittrice del Maine Sarah Langan, cresciuta a Long Island e da anni a Los Anglese, costruisce una storia che indaga la crisi morale della middle class, l’emergere di paure e frustrazioni pronte a fare da base ad una sorta di temibile «cultura dell’odio».

La scrittrice Sarah Langan

A differenza dei suoi romanzi precedenti, «I buoni vicini» non è un classico romanzo horror, anche se è difficile pensare ad una storia altrettanto terribile e mostruosa: solo che in questo caso l’orrore si cela nell’ordinario, nella vita quotidiana di persone che forse ci assomigliano.
Senza alcun dubbio. La letteratura dell’orrore in genere è pura evasione: vampiri sexy e zombi irragionevoli. E noi, leggendo quelle storie, possiamo immaginarci come degli eroi, dei sopravvissuti in un mondo che cade a pezzi. In fondo quel tipo di storie sono molto rilassanti. Il mostro è fuori, all’esterno, non siamo certo noi. Mentre invece «I buoni vicini» non cerca di calmare nessuno, anzi è costruito perché le persone si guardino allo specchio e cerchino di capire che cosa non va. Volevo riflettere sul mondo in cui viviamo ora, mostrare le forme sempre più conflittuali di convivenza cui ci stiamo abituando, capire come siamo arrivati fin qui e, se possibile, indicare una via per uscirne. Scrivendo il libro mi è tornato in mente un vecchio film di Elia Kazan, Un volto nella folla (1957): non si tratta assolutamente di un horror o di niente del genere, è solo una storia di celebrità, narcisismo, corruzione e di come si possano manipolare gli altri, ma mi ha ricordato un po’ questo mio romanzo.

L’unico elemento esterno alla sinistra «normalità» che è al centro del libro, una dolina, una voragine grondante bitume che si apre nel parco vicino. Una minaccia che fa pensare alle conseguenze del cambiamento climatico, ma anche alla fantascienza degli anni ’50, a film come «The Blob», che non a caso facevano irrompere l’oscuro e il male nella vita dei teenagers e della classe media.
In realtà stavo pensando alla grande e incombente minaccia del riscaldamento globale. L’erosione ha causato questa gigantesca voragine nel bel mezzo di questa zona residenziale. Ma il problema è così grande e spaventoso che la gente di Maple Street preferirebbe concentrarsi su qualsiasi altra cosa, compresa la famiglia Wilde che diverrà così rapidamente il capro espiatorio della situazione. Concentrandosi su di loro, anzi contro di loro, il resto dei residenti avrà l’illusione di aver ritrovato il controllo su quanto li circonda, ma ovviamente non è così. Stanno solo peggiorando le cose. Danno la caccia ad una famiglia innocente, mentre la vera minaccia, «il buco» nel cortile di casa, sta cercando di mangiarsi i loro figli.

Uno dei ragazzi di Maple Street pronuncia la frase che sembra racchiudere il significato dell’intero romanzo: «La perfezione non esiste, è solo una bugia». È per nascondere questa verità che si mette in moto la macchina del rancore, della vendetta e della calunnia che condurrà alla violenza?
Il personaggio principale della storia, Rhea Schroeder non sa che la perfezione è una bugia. Non solo, è cresciuta in circostanze così terribili che crede che tutti sappiano qualcosa che a lei invece sfugge. Per tutta la vita ha cercato di compensare questa difficoltà fingendo di essere l’archetipo della perfetta mamma della borghesia suburbana. I media ci spiegano che questo archetipo esiste e che ci dice che se non siamo assolutamente perfetti, siamo dei falliti. Le persone che non hanno altri strumenti, cui non sono stati offerti altri modelli di ruolo, devono sentirsi malissimo per tutto questo, come se passassero da un fallimento all’altro cercando di nasconderlo, come se avessero ingannato la vita, se stessi e gli altri con una truffa continua. E tutta l’esistenza di Rhea è trascorsa cercando di celare questa presunta frode. È una risposta tipica del ceto medio che vive in queste zone periferiche e residenziali: tienilo per te a meno che tu non possa vantartene. Finché qualcosa o qualcuno non sembra mettere in discussione questa rappresentazione di sé che va per la maggiore.

È per questa via che il vostro romanzo trasforma in una favola dell’orrore un frammento del «sogno americano», descrivendo il conflitto di classe combattuto dai ricchi contro i poveri. I Wilde pensano che trasferirsi in Maple Street farà ottenere loro quella stabilità e rispettabilità che tanto anelano. Solo che agli occhi dei residenti non appaiono come dei benvenuti, perché?
Li considerano letteralmente come i barbari alle porte. Le altre famiglie si sono trasferite a Maple Street per salvarsi da un mondo che cade a pezzi. Ma se quelli che gli appaiono come dei disadattati grossolani come i Wilde possono permettersi di vivere lì, forse significa che il loro status è in declino. I Wilde non sono solo diversi, non hanno soldi. L’America è tra i Paesi più ricchi del mondo, eppure affronta con paura e ostilità l’arrivo dei rifugiati e dei migranti: abbiamo paura di perdere ciò che abbiamo.

Prima di iniziare a lavorare a questo libro avete studiato alcuni celebri casi avvenuti negli Stati Uniti – come l’assassinio di Kitty Genovese e l’esperimento svolto nel carcere di Stanford – che hanno analizzato l’atteggiamento della società nei confronti della violenza e la presenza o meno di empatia nei confronti delle vittime. Di cosa si tratta e che rapporto ha con quanto avete scritto?
Il caso di Kitty Genovese è stato insegnato per anni nelle classi di sociologia di tutta l’America. Nel 1964 una giovane donna del Queens è stata uccisa a coltellate dal suo ragazzo nel cortile di casa. La storia ufficiale racconta che abbia urlato per più di un’ora e sia morta da sola, senza che nessuno dei vicini abbia chiamato la polizia. Si tratta però di una menzogna che ha preso piede in un periodo nel quale i bianchi stavano lasciando le città per i sobborghi residenziali. L’idea che si voleva far passare era che non potevano fidarsi dei loro simili, che non c’era solidarietà tra le persone e non invece che se ne stavano andando per non dover convivere con i neri che stavano affluendo verso i centri urbani. Solo molti anni dopo è emerso come andarono davvero le cose: i vicini erano intervenuti per salvare la ragazza ma la negligenza della polizia rese vano quel tentativo. Per quanto riguarda la prigione di Stanford, nel 1971 un sociologo di nome Philip Zimbardo condusse un esperimento in cui pagò dei volontari, molti dei quali erano suoi studenti, per recitare il ruolo di prigionieri e guardie, documentando come «gli attori» abbiano poi finito per incarnare sempre di più i ruoli che interpretavano: le guardie erano diventate sadiche, i prigionieri erano più mansueti e sembravano aver perso ogni speranza. Anche in questo caso, alla maggior parte degli americani è stato insegnato per anni tale studio, prima che si scoprisse che Zimbardo aveva bluffato, imponendo o indirizzando i suoi studenti verso determinati comportamenti. L’assunto di entrambi questi casi era spiegare la natura umana in modo negativo, come se fossimo solo in parte responsabili delle nostre azioni e fossimo invece mossi solo da istinti egoistici e aggressivi. Sono partita da questi esempi, così a lungo presenti nell’immaginario americano, per cimentarmi con una storia che indaga su come siamo portati a comportarci quando assistiamo ad un sopruso che subisce qualcun altro, o di fronte al tentativo di trasformare una persona nel capro espiatorio di un qualche malessere. Alla fine ho scoperto che la verità è molto più sfumata e complessa. Siamo buoni ed eroici. Ma a volte vediamo una minaccia dove non esiste e reagiamo a quella minaccia in modi che feriscono le persone coinvolte e con esiti terribili.

In un precedente romanzo, «The Missing» (Kowalski, 2008), descrivete la diffusione di un virus letale. Da scrittrice «del mistero» pensate che la tragedia del Covid-19 abbia alimentato nelle persone maggiore consapevolezza dei limiti degli esseri umani o piuttosto l’idea che ogni vicenda nasconda una macchinazione, qualche forma di complotto?
Personalmente non credo nei complotti, ma credo che il profitto sia un ottimo movente. Le persone fanno cose cattive per soldi, purché non debbano mai incontrare le persone che hanno ferito con i loro atti. Questo vale per i consumatori come per i capitani d’industria. The Missing parla molto della «malattia del consumo»: del fatto che non riusciamo a smettere di comprare roba di cui non abbiamo alcun bisogno. Il Covid ha insegnato agli americani che non siamo al sicuro, proprio come aveva fatto l’11 settembre vent’anni prima. Pensavo che avremmo gestito molto bene qualsiasi pandemia. Pensavo che saremmo stati organizzati, avremmo isolato il pericolo e avremmo guidato il mondo, superato le nostre differenze e fatto la cosa giusta. Ma mi sbagliavo, e di molto. I barbari sono alle porte, e non sono altri: siamo noi stessi.

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