Sara Fgaier, le immagini che resistono alla morte
Intervista Presentato al Filmmaker come film di chiusura domenica 24 novembre il primo film della regista italo-tunisina
Intervista Presentato al Filmmaker come film di chiusura domenica 24 novembre il primo film della regista italo-tunisina
Esplorare i meandri della memoria con i mezzi del cinema è la sfida di Sulla terra leggeri, lungometraggio d’esordio di Sara Fgaier. La storia del professore di etnomusicologia Gian (interpretato da Andrea Renzi), colto da amnesia e costretto a ricostruire la sua grande storia d’amore, diventa un esorcismo del baratro e un tentativo di resistenza all’oblio. Da sempre attratta dagli archivi, Fgaier li ha utilizzati anche in questo lavoro di finzione, riuscendo a trovare un equilibro tra i diversi materiali. Una fonte del film è stata il libro Livelli di vita di Julian Barnes, ed è proprio a queste diverse altezze che Fgaier allude tra i baratri delle caverne e le vertigini raggiunte in volo dalla giovane aviatrice Leila, che Gian si ostina a inseguire nei paesaggi interiori del suo passato. Un lavoro visionario e struggente, Sulla terra leggeri, che dopo il debutto in concorso a Locarno viene proiettato a Filmmaker come film di chiusura domenica 24 novembre (avrà poi una distribuzione nelle sale dal 28). Abbiamo incontrato Sara Fgaier a margine della presentazione del film alla stampa.
Il tema della memoria è centrale in «Sulla terra leggeri» ma lo è anche per i tuoi lavori precedenti, come il cortometraggio «Gli Anni» ispirato a Annie Ernaux o la collaborazione con la compagnia teatrale Fanny&Alexander per l’allestimento de «L’amica geniale».
È vero, questa dimensione del ricordo c’è sempre, bisogna dire che il cinema contiene in sé un discorso sul tempo. Sicuramente ho una fascinazione per le immagini d’archivio e molti progetti per me nascono in quella fase, mentre faccio delle ricerche. Magari c’è solo un’idea embrionale che però mi stimola a iniziare a vedere delle immagini. Questo implica una relazione privilegiata con i morti, perché di fatto si ha a che fare con dei fantasmi. Cercare tra questi materiali e poi metterli insieme per me è un piacere, venendo dal montaggio significa poi avere a disposizione un potenziale enorme. Penso ad esempio alle immagini dei film di famiglia, dove si entra a contatto con le vite private delle persone, anche se magari poi si scopre che le storie sono molto diverse da ciò che si vorrebbe rappresentare. È molto interessante cercare le «immagini nascoste» tra le pieghe di questi materiali. Per Sulla terra leggeri ho messo insieme dei fondi che vanno dall’inizio del Novecento agli anni ’70 appartenenti a 30 famiglie diverse, l’idea di mescolare i linguaggi mi è sempre piaciuta, da piccolissima facevo continuamente dei collage e in parte mi sembra di continuare a fare lo stesso. Il lavoro nel teatro è stato bellissimo, mi ha permesso di fare irruzione in un altro mondo. Non avevo alcuna intenzione di utilizzare la mia voce ne Gli anni, ma la registrazione che avevo realizzato con un’attrice non mi convinceva. Allora ho pensato che, visto il forte processo di identificazione che avevo vissuto leggendo il romanzo di Ernaux, forse una voce più semplice come la mia potesse aderire meglio. In quel momento ho chiesto a Chiara Lagani di aiutarmi e lì ho scoperto la tecnica dell’eterodirezione: parlare con la sua voce nelle orecchie che leggeva il testo mi ha permesso di ottenere una strana naturalezza. Da lì ho iniziato a fare un corso di pratiche vocali e addirittura la mia voce in alcuni momenti del film sembra provenire da età diverse.
Le immagini allora è come se fossero sulla soglia tra questi diversi «livelli di vita»?
Assolutamente sì, nel film il confine tra vita e morte viene indagato in modi diversi, penso alle immagini del carnevale e alla trance estatica dei balli nordafricani. È come se il protagonista non potesse arrendersi al fatto che le sue memorie sono finite. Per quanto provi un enorme dolore nel momento in cui è sottoposto a questo racconto di un amore così grande di cui non ricorda nulla, quando si prende il rischio di scoprire la sua vicenda va quasi contro se stesso. Non se ne fa una ragione, vuole continuare a cercare. E allora è come se creasse delle forme di narrazione che possano far resuscitare la sua amata, che è quello che ho cercato di fare attraverso gli archivi, e quando non è più supportato dalle immagini si aggrappa all’unica foto che ha, l’ultima immagine di lei, per opporsi al tempo della morte e renderla eterna. Che poi, credo, sia il fine ultimo di ogni narrazione cinematografica. Per me i morti non vogliono essere cancellati e anche dopo la loro scomparsa, è come se continuassero ad agire in altri modi.
La materialità della pellicola in quest’ottica ha un altro potere rispetto al digitale?
Sono molto contenta di aver fatto questa scelta, volevo ottenere un flusso continuo con tutta questa varietà di elementi, con le immagini d’archivio, con quelle che avevo girato con la mia Bolex. E così, per non avere degli stacchi netti tra presente e passato, abbiamo girato tutto in 16 mm.
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