Santarcangelo è un dj set
A teatro Nell’affollatissimo cartellone del festival di Santarcangelo il nuovo spettacolo dei Motus, «MDLSX», scritto e interpretato da Silvia Calderoni. Polemiche finali sulla performance di Tino Sehgal
A teatro Nell’affollatissimo cartellone del festival di Santarcangelo il nuovo spettacolo dei Motus, «MDLSX», scritto e interpretato da Silvia Calderoni. Polemiche finali sulla performance di Tino Sehgal
Diceva un grande regista che la questione non è fare film che parlano di politica, si tratta di fare film in modo politico. E tornava in mente sfogliando il programma del festival di Santarcangelo, fin troppo gonfio di «eventi», dove risalta l’alto tasso di politicità dei temi che vi si affacciano. Quasi un baedeker a uso di un viaggiatore curioso delle cose del mondo. Lo scontro (di civiltà?) fra l’occidente cristiano e il radicalismo islamico, visto da un militante della nuova destra xenofoba. I territori palestinesi occupati da Israele. Le vittime della crisi economica greca. Le vite segrete dell’Ungheria sotto il regime comunista. Le peripezie dell’identità di genere. Il destino di un paese del sud-est asiatico che fatica a uscire dal giogo di una cialtronesca ma feroce dittatura militare…
Non è insomma per caso se si è scelto per l’inaugurazione del festival, in piazza Ganganelli, il Breivik’s statement di Milo Raul. L’artista svizzero (sociologo di formazione, sarà anche a Venezia prossimamente con il suo lavoro più noto, dedicato al genocidio del popolo tutsi in Ruanda) dà voce all’estremista della destra norvegese che nel 2011 uccise settantasette giovani durante un raduno del partito socialista. Un’attrice legge la lunga dichiarazione resa da Breivik davanti al tribunale di Oslo, così ragionevole e conseguente in fondo. Segue dibattito, secondo l’ormai stucchevole format di matrice televisiva che vuole lo scontro fra uno di sinistra o quasi e uno di destra (ecco, se ci avessero detto un tempo che avremmo visto Marcello Veneziani pontificare sulla piazza di Santarcangelo…).
Torna alla mente anche il teatro «polittttico» predicato un tempo da Marco Martinelli (che allora dichiarava infatti di aver sempre odiato il «teatro politico» di tendenza didascalica) per dire che ci sono tanti piani da tenere a mente. Ci sono anche le Albe di Ravenna al festival, un po’ fuori contesto, con quel loro ormai rodato Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi che è proprio quel che dice il titolo, un lungo excursus su sessant’anni di vita e battaglie della carismatica leader dell’opposizione democratica birmana. Si potrebbe immaginare una fastosa epopea asiatica quale quelle allestite in tempi lontani da Mnouchkine e Cixous al Théâtre du Soleil; è invece quasi teatro da camera. Avvolta fino ai piedi nel tradizionale longyi birmano, un fiore fra i capelli annodati sulla nuca, ma senza spingere oltre l’adesione mimetica al personaggio, Ermanna Montanari ne ricama la solitudine nella casa sul lago dov’è rinchiusa, alle prese con i suoi fantasmi, fra maschere scimmiesche e grottesche apparizioni dei militari che fra un massacro e l’altro si mantengono al potere.
Il contesto è quello disegnato da Silvia Bottiroli, confermata per un altro triennio alla guida del festival. Si può dire che non ci piace la linea che ha impresso al festival, ma non si può che rispettare la coerenza e la determinazione della giovane curatrice nel portarla avanti. La linea è quella tracciata nelle precedenti edizioni, semmai con una più nitida rivendicazione di una «vocazione minoritaria» nel rifiuto della tradizione novecentesca del teatro e del «nuovo» che da lì era nato, a favore di esperienze performative anche marginali che guardano piuttosto agli sviluppi delle arti visive. Con due punti fermi.
Forte impulso della dimensione internazionale, soprattutto in direzione dei paesi nordici, e interesse per le pratiche artistiche che coinvolgono gli spazi pubblici, che però, già lo si notava, vanno di pari passo col dissolversi di un’idea di comunità, al cui posto si installa una folla solitaria. Il modello potrebbe sembrare il Kunsten di Bruxelles, com’è diventato dopo che Frie Leysen ne ha lasciato la direzione – festival che però può ancora permettersi Anne Teresa De Keersmaeker e il Wooster Group.
Naturalmente poi a Santarcangelo ci si torna ogni volta, mettendo in preventivo la delusione. Quest’anno in piazza zampilla di nuovo l’acqua nella fontana e da un lato è spuntato un biancospino «illegale» (l’installazione è firmata Andreco, una legge regionale ha vietato la messa a dimora di questo arbusto perché ritenuto infettante per gli alberi da frutta). E per fortuna il ristorante Zaghini è sempre lì, con le tagliatelle tirate a mano e il ragù alla romagnola. Forse le ultime vestigia di quello che fu il festival del teatro in piazza. Non si è avuto cuore di seguire l’Azdora dell’artista svedese Markus Öhrn (l’arzdora, meglio, è un termine intraducibile della lingua romagnola per indicare la donna che regge la casa).
Fra i lavori che parlano di politica, il danzatore israeliano Arkadi Zaides riproduce col proprio corpo i movimenti ossessivamente iterati che appaiono in un montaggio di frammenti video filmati nei territori occupati. Un format è anche quello proposto da Mette Edvardsen, norvegese, ispirandosi al finale di Fahrenheit 451. Un gruppo di persone impara a memoria un brano di un libro a propria scelta e all’interno della biblioteca del paese, come un libro vivente, lo dice a un visitatore (a me è toccata la parte iniziale di un racconto di Agota Kristof, per ragioni di fruizione la durata della performance è limitata a circa 30 minuti). Non sembra ma è un passo anche questo verso la cancellazione del teatro, di pari passo all’attraversamento danzante del paese condotto da Collettivo cinetico o quello a tappe fra i banchi del mercato guidato da Cristian Chironi, con l’audio in cuffia. (Se diminuisce il teatro, aumenta invece la carta, nella forma di una serie di fascicoletti presentati sotto l’intestazione presuntuosetta di «how to build a manifesto for the future of a festival»).
E tuttavia il teatro resiste. Lo dimostra il bellissimo MDLSX di e con Silvia Calderoni presentato nell’angusto spazio del teatrino della Collegiata (si può vederlo a fine mese alla Centrale Fies di Dro). MDLSX è uno slittamento lungo un piano inclinato che si presenta nella forma ingannevole di un DJ set. Davanti a un banco di regia l’attrice mixa brani musicali e videoclip, maneggia una videocamera con cui si riprende, e che diventa quasi un’estensione del suo corpo. Si racconta, mostrando con spudorata innocenza filmini familiari degli anni giovanili che innescano però lo scorrere del tempo. Come sempre avviene negli spettacoli dei Motus (la regia è infatti di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò) una miriade di fonti si intrecciano nella tessitura drammaturgica, dagli studi sul gender al romanzo di Jeffrey Eugenides richiamato nel titolo all’apparenza misterioso, Middlesex.
Da lì viene la traccia principale, il viaggio sentimentale di un Orlando contemporaneo, una ragazza che rinasce col corpo di un ragazzo. E poi ci sono le tracce musicali, una subliminale drammaturgia parallela, dagli amati Smiths a nomi anche assai poco noti. Ma c’è soprattutto lei, col suo corpo androgino che non teme di mettere in gioco (non lo ha mai fatto) in una nudità ora gioiosa ora crudele. Su quel piano inclinato si scivola verso un cuore di tenebra che dice la difficile conquista di una propria identità, fuori da stereotipi e pregiudizi. Ecco come si può fare teatro in modo politico.
P.S. Raccontano le cronache che qualche rumore e protesta ha sollevato alla fine un interprete della performance (untitled) di Tino Sehgal che ha riprodotto il gesto del Manneken Pis (suvvia, chi non è mai stato a Bruxelles guardi su wikipedia). Ma è questo lo scandalo del teatro di cui varrebbe la pena occuparsi?
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