Cultura

Santa Libera, ovvero tutta la cenere covata dal fuoco

Santa Libera, ovvero tutta  la cenere covata dal fuocoChristian Schiefer a Milano, 29 aprile 1945

Saggi «Per sempre partigiano» di Pino Tripodi per DeriveApprodi. 1946. Tra Langhe e Monferrato, una rivolta trascurata dalle pagine sulla resistenza

Pubblicato più di 8 anni faEdizione del 27 aprile 2016

È una pagina dimenticata della storia della resistenza. O meglio di ciò che la resistenza avrebbe potuto continuare a essere anche dopo il 1945. O è più semplicemente un frammento di quella storia ribelle che come tale ha attraversato il movimento partigiano ma si è manifestata anche ben prima di tutto ciò. E che dopo di allora, pur con esiti altalenanti e a prima vista sempre più incerti non ha mai smesso di fare irruzione nella realtà.

La vicenda che Pino Tripodi racconta in Per sempre partigiano (DeriveApprodi, pp. 246, euro 16,00), è però prima di tutto un potente antidoto alla pacificazione della memoria, al suo trasformarsi in oggetto museale, valido per le celebrazioni e le ricorrenze ma mai e poi mai per la vita vera. Questo libro intenso, solcato dal timbro narrativo del memoir come dal linguaggio della poesia, colpisce invece allo stomaco, chiede partecipazione, induce all’indignazione come alla speranza, alla rabbia in egual misura che al riso.

Vi si narra dell’insurrezione di Santa Libera, scoppiata nell’estate del 1946 tra le colline comprese tra le province di Cuneo, Asti e Alessandria e che Tripodi ricostrusce a partire dalla figura di Giovanni «Primo» Rocca, già comandante della Stella rossa, poi divenuta la IX divisione d’assalto Garibaldi, che di quegli eventi fu uno dei protagonisti; testimone di una volontà di mutamento radicale della società che fu anche e prima di tutto volontà di trasformare se stessi.

Non arrendersi

Per molti combattere nazisti e fascisti durante la guerra ha rappresentato infatti solo l’inizio. La vera sfida è ora rappresentata dalla possibilità di costruire un nuovo paese «sui principi di giustizia sociale di partecipazione di massa di democrazia e di uguaglianza sperimentati nelle formazioni della resistenza». Ma, dopo la liberazione i mesi passano invano e con essi svaniscono molte illusioni. Per tanti partigiani che nel corso dell’ultimo anno non hanno smesso di veder sfumare uno dopo l’altro i veri motivi che li avevano spinti in montagna e che spesso hanno scelto di non consegnare le proprie armi, cresce la delusione ma anche la volontà di non arrendersi.

«Molti partigiani me compreso rifiutano la consegna delle armi perché ritengono la resistenza non ancora conclusa. Non si può sognare prima di mettersi a dormire, non si può scendere dalla nave se non si è approdati in porto. il fascismo è finito, ma l’italia è infettata di fascisti, non consegnare le armi è un segnale della volontà di continuare la battaglia della pace nelle terre nelle fabbriche nei palazzi del potere».

Al nord, specie in Piemonte ma anche in Veneto, Lombardia, Liguria, Emilia e Toscana, e in modo meno sistematico in moltre altre realtà, si susseguono gli incontri, si tornano a tessere i legami che si sono costruiti durante la guerra clandestina. Per quanta insoddisfazione covi anche nei confronti dei vertici del Pci, più preoccupati di irregimentare, oltre che la propria base, anche i partigiani che di accoglierne stimoli e proposte come annota il protagonista, «togliatti mi dona subito l’impressione di un uomo che la realtà la porta sempre stampata sulle lenti dalla parte interna quella che guarda solo lui», l’obiettivo è prima di tutto quello di riprendere il cammino interrotto, collocare «nella giusta dimensione l’esperienza della resistenza nell’Italia postfascista».

Memoria pubblica

Il resto, inteso come rivendicazioni legate ai diritti nel lavoro, al nord, e alla terra, al sud, verranno poi. Così, nell’estate del 1946, dopo che la caduta del governo Parri aveva già segnato in precedenza la fine di ogni idea di trasformazione radicale del paese, l’uno-due rappresentato dall’accordo tra Italia e Belgio che scambia decine di migliaia di giovani spediti a crepare in miniera in cambio del carbone, e dalla cosiddetta «amnistia Togliatti» che fa uscire i criminali fascisti di galera, si decide che è venuto il momento di agire.

Epicentro dell’insurrezione, fissata per il 20 di agosto, sarà la località di Santa Libera, nel territorio di Santo Stefano Belbo, dove nel corso di una vacanza nei luoghi pavesani lo stesso Pino Tripodi rintraccerà oltre cinquant’anni più tardi la vicenda.
Incruenta, per quanto armata, sostenuta da centinaia di partigiani in armi in tutto il nord, sessanta quelli che terranno Santa Libera per una settimana, la rivolta scuoterà il paese più di quanto sia rimasto nella memoria pubblica.

Dopo 4 giorni una delegazione, ancora una volta in armi, sarà ricevuta a Roma dal vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni che si impegnerà ad esaudire le prime richieste riguardanti il riconoscimento giuridico dei partigiani.

Incendi improvvisi

La smobilitazione non arriverà a causa delle minacce proferite dagli americani, dall’esercito o dai carabinieri, ma per volontà dei vertici comunisti che ricorreranno al carisma di un leggendario ex comandante partigiano per far desistere i rivoltosi, temendo che da quel primo fuoco, mentre già altri episodi analoghi si andavano diffondendo nelle zone dove la resistenza popolare tra il 43 e il 45 era stata più forte e attiva, potesse divampare un vasto e incontrollabile incendio.

Con la fine di Santa Libera, ammette il narratore di Per sempre partigiano, la resistenza finisce davvero.
Non però il senso di una rivolta che non si può interrompere, perché «per finire di essere ribelli dobbiamo vedere un mondo giusto come lo vogliamo noi, ma quel mondo è impossibile è solo un parto della nostra fantasia». Perciò, di ribellarsi non si potrà mai smettere.

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