In un suo intervento polemico, ripreso in varie sedi, e col titolo La traduzione come lotta sul magazine «Opera Viva», il critico Boris Buden affrontava di petto il problema dell’egemonia culturale dell’occidente nell’ambito della transizione post-comunista. In particolare, l’interpretazione data da Jürgen Habermas al crollo del muro di Berlino nei termini di una re-winding revolution («rivoluzione riavvolgente») che avrebbe permesso all’est di redimersi finalmente dal proprio passato socialista, colmando il ritardo epocale che lo separava dalla modernità, apriva le porte a una storia dell’arte a esclusiva cura dell’ovest, in cui l’est poteva essere musealizzato solo in quanto «discarica della storia». Ora che lo stesso processo sarà verosimilmente ripetuto, «grazie» all’intervento di Putin, in Ucraina (nuovo membro in pectore, o in macerie, dell’Unione Europea), è forse il caso di ricordare quando la Jugoslavia, prima di essere cannibalizzata dagli opposti nazionalismi, era un laboratorio per forme di collaborazione artistica che ponevano in discussione la stessa dicotomia fra est e ovest. Un’occasione preziosa per farlo è la retrospettiva che la Kunsthalle di Vienna dedica a Sanja Ivekovic, Works of Heart, 1974-2022 (a cura di Zdenka Badovinac, fino al 12 marzo 2023), riassumendo una traiettoria creativa di singolare coerenza.
Già negli anni Settanta l’artista zagabrese dialogava con la scena italiana: la mostra si apre infatti con il suo battito cardiaco «d’annata», registrato a Trieste nel 1977 in occasione di Inaugurazione alla Tommaseo: con la bocca sigillata da nastro adesivo, Ivekovic accoglieva gli invitati al vernissage entrando in contatto fisico con loro, mentre le pulsazioni amplificate del suo cuore venivano diffuse nello spazio della galleria.

SE QUESTA e altre sue performance dello stesso periodo sono state giustamente messe in relazione da Marco Scotini in una mostra di qualche anno fa, The Opening, con le Esposizioni in tempo reale di Franco Vaccari – anch’esse miranti a rendere «percettibile» la presenza del pubblico all’interno dell’evento artistico – va detto al contempo che Ivekovic dispiega una forza eversiva tutta sua nella visualizzazione dei rapporti di forza inevitabilmente inscritti nel mondo dell’arte. Lo testimonia un’opera addirittura precedente, datata 1975, dove una pagina della rivista «Flash Art» significativamente intitolata Women in Art, e composta da un collage di foto di artiste, critiche e curatrici occidentali viene affiancato da Ivekovic ai volti anonimi disegnati delle loro «equivalenti» jugoslave. L’inequivocabilità inerente al medium fotografico (e alla sua capacità, secondo Roland Barthes, di fornire un «certificato di presenza» al soggetto ritratto) viene così sarcasticamente contrapposta all’evanescenza fisica di un tratto a matita dal sapore un po’ folk.

La giustapposizione di immagini legate da proporzioni variabili di conflittualità reciproca è d’altronde il modus operandi che caratterizza gran parte della produzione dell’artista, nata nel 1949. Talvolta il contrasto è stridente, come nel caso del lavoro del 2001 che, «interagendo» con Inaugurazione alla Tommaseo, dà il titolo alla mostra. In Works of Heart l’artista disgiunge, dislocandole su pareti opposte dello spazio espositivo, due fotografie che il «New York Times» del 4 febbraio 1994 pubblicava invece l’una accanto all’altro: una donna insanguinata e con gli occhi chiusi durante il bombardamento del mercato di Sarajevo e un’altra, nella medesima posa ma decisamente più seduttiva, intenta a pubblicizzare un collier per San Valentino. Altrove, l’utilizzo di réclame prelevate dalla stampa dà esiti meno flagranti e più ironici, come ad esempio la serie di 62 fotomontaggi del 1975 Doppia vita in cui Ivekovic affianca a foto tratte dai suoi album personali pubblicità che presentano soggetti femminili esattamente nelle stesse situazioni.
Il fatto che non si tratti di re-enactment, bensì di istantanee di vita privata antecedenti le «messinscene» delle riviste ci costringe a chiederci non solo in quale misura i nostri comportamenti quotidiani tendano a replicare quest’immaginario inconscio, ma anche se simili immagini, che pure ci appaiono stereotipate, non fissino in realtà qualcosa di autenticamente nostro che non siamo disposte a riconoscere come tale.

EMERGE QUI una costante dell’atteggiamento di Ivekovic nei confronti della «società dello spettacolo», e cioè la totale assenza di qualsiasi traccia di moralismo. Questo emerge con particolare evidenza in quelli che, probabilmente, sono i lavori più belli in mostra, ossia i fotomontaggi sulle partigiane jugoslave – la madre di Ivekovic, Nera Šafari, era stata deportata ad Auschwitz a 23 anni in quanto appartenente alla Resistenza. Proprio lei è l’unica «modella-non modella» della serie GEN XX, dove le foto di alcune icone degli anni Novanta come Linda Evangelista sono accompagnate da didascalie inusuali, che recano i nomi ormai dimenticati di combattenti comuniste, quasi tutte torturate e giustiziate in giovane età. Così rielaborate, le immagini delle top-model sono state re-inserite nel loro habitat naturale: le pagine delle riviste femminili. Altrettanto potente è il cortocircuito innescato da The Right One. Pearls of Revolution, 2007-2010, dove la sociologa Jana Vuki, la cui madre aveva partecipato a sua volta alla Resistenza, reinterpreta su richiesta di Ivekovic un’immagine pubblicitaria in cui una modella saluta col pugno chiuso, in cui tiene stretto però un filo di perle. L’artista interviene coprendo l’occhio destro di Vuki con foto in bianco e nero di autentiche partigiane di Tito che eseguono il saluto militare.
L’ambiguità dell’aggettivo «right», che significa «destro», ma anche «vero» e «giusto» (duplicità che ovviamente traspariva anche dal titolo originale croato) allude non solo al rapporto fra copia e originale, ma anche al baratro incolmabile aperto fra le generazioni.

A QUEST’OSSESSIONE di Ivekovic per il volto femminile, con la sua semantica così fluida e straordinariamente malleabile, si riconnette anche il rito purificatorio della Casa delle donne, progetto intrapreso nel 1998 e tuttora in corso, in cui le ospiti di case d’accoglienza in giro per il mondo vengono invitate a mettere per iscritto le storie di violenza che hanno alle spalle e a lasciare che l’artista prenda un’impronta di gesso del loro volto.
Quest’ultima operazione, dal carattere chiaramente metaforico e liberatorio – congedarsi dall’immagine cava di sé in quanto vittima di abusi, staccarla dal proprio viso, come una maschera mortuaria – assume invece una valenza drammaticamente letterale nel caso delle donne sieropositive thailandesi rifugiatesi nella Bangkok Emergency Home. Qui l’«opera» dell’artista di Zagabria diventa spesso l’ultima visibile traccia del loro passaggio su questa terra.