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Sangue, l’occhio lucido di Pippo Delbono

Sangue, l’occhio lucido di Pippo DelbonoPippo Delbono

Prima visione L'antropologia poetica del regista/attore arriva nelle sale

Pubblicato quasi 11 anni faEdizione del 16 gennaio 2014

Esce così, in silenzio, Sangue di Pippo Delbono, nonostante contemporaneamente all’Argentina di Roma vada in scena Orchidee, ultimo spettacolo teatrale del regista e attore che con il film condivide non pochi punti di contatto. Curioso ma prevedibile l’assordante silenzio, per utilizzare una frase fatta, che circonda Sangue di Delbono. Dopo le polemiche isteriche di Locarno il film, uno dei più audaci realizzati da un cineasta italiano negli ultimi anni, vede finalmente il buio di poche sale sparse sul territorio (potete trovarlo nei tamburini di Roma, Milano, Napoli e Bologna) grazie a una distribuzione tanto piccola quanto coraggiosa.

Ovviamente, come sovente accade in questi casi, ciò che finisce per essere trascurato completamente è il valore del fatto filmico. Che, sia detto inciso, è davvero alto. Delbono filma ad altezza di occhi. Non bara, Delbono. Lui si sogna e progetta come estensione del suo dispositivo, leggerissimo, e dunque fluido, veloce. Nella tradizione delle avanguardie storiche, Delbono sogna una macchina leggera, in grado di trascolorare attraverso diversi strati di reale, passando da un piano all’altro, contando solo sulla propria presenza per legare insieme, momentaneamente, le tappe del suo errare.

Mettendo in scena l’atto del proprio filmare, ossia l’atto del vedere con i propri occhi, Delbono di fatto ripensa sia il cinema diretto che quello in prima persona. Nel suo approccio al cinema non è presente l’inseguimento del feticcio di una verità unica, semmai si tenta di ipotizzare modalità altre per verificare possibilità di incontro e dialogo. Certo: Delbono non è un cineasta malleabile. La richiesta di dialogo e confronto che pone al Paese è severa. Non ci sono vie di mezzo per dialogare con Delbono. O si rischia, meglio: si gioca con lui, a questo gioco serio e buffo che è la vita, o non si capisce Delbono. E forse è proprio questa incapacità della nostra ufficialità nei confronti della sua poetica a determinare il silenzio infastidito circonda Sangue. L’antropologia poetica di Delbono, che si fonda in un intreccio di motivazioni che agita, danza, poesia, musica e la forma-film, la sua ossessione per le forme in grado di scompaginare l’esistente, è senz’altro il fatto nuovo del cinema italiano. Un fatto nuovo che si afferma attraverso una parola altra, praticando un cinema che del cinema, inteso come la tassonomia delle forme note, si disinteressa, e che osa pensare il proprio divenire in pubblico, mostrando i processi che lo portano a essere linguaggio, o meglio proposta di linguaggio.

E tanto vale sfatare anche il mito dello spontaneismo, tanto dannoso quanto falso. Per ottenere un cinema così libero e danzante occorre disciplina. Una disciplina in grado di calibrare il gesto e il canto. Il passo e la danza. Senza contare il montaggio, autentico beau souci delboniano, cuore di tutto il suo pensiero cinematografico. Non è un caso che Delbono abbia al suo fianco il godardiano Fabrice Aragno, che calibra l’incastonamento dei frammenti al millimetro auscultandone l’oscillamento drammatico.

Sangue, tra i suoi meriti, vanta questo: un cinema fatto di verifiche e sperimentazioni progressive. Un cinema che si cerca mentre si fa e che rifugge tutti i discorsi che non siano quelli di uno spostamento continuo. Differimento, per dirla con Derrida. Ecco perché a fronte della gioiosa complessità del cinema di Pippo Delbono e di Sangue, non si può fare a meno di notare la mancanza di risposte adeguate o, se proprio si vuole, di un livello di scontro adeguato alla sua complessità politica e linguistica.

Così, fra le Orchidee e il Sangue, Delbono ci istiga a vivere, mentre il silenzio ufficiale vorrebbe mettere tutto a tacere. E invece a volte basta danzare le complessità per provare a vivere un’altra vita.

 

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